Vulcano

Molto attento al realismo e a non contaminare la storia con elementi melodrammatici, Bustamante ha raccontato con toni fortemente drammatici una vicenda che a quanto pare si ripete spesso dalle sue parti. Cioè un desiderio di fuga, un solidissimo legame con le tradizioni familiari, un difficile rapporto con le autorità (anche soltanto perché i Maya parlano la loro lingua e non capiscono lo spagnolo), una disillusione e l’obbligo di adeguarsi alla volontà dei genitori, che in qualche caso equivale a spegnere ogni lume di vitalità.

È la storia di Maria, che vive con i genitori alle pendici del vulcano oltre il quale c’è il Messico e poi gli Stati Uniti, coltivando caffè e mais per il padrone, sia del terreno che della casa. Il padrone, Ignacio, è interessato a Maria e i genitori concordano il matrimonio. Lei, però, sogna di andare negli Stati Uniti e per questo accetta la corte di Pepe, che sta per partire. Il risultato è che Pepe parte da solo e Maria resta incinta. La madre tenta di farla abortire, ma i segni indicano che la vita deve procedere. Maria, fidando in una tradizione che vuole che una donna incinta sia in grado di scacciare i serpenti, va nel campo a questo scopo e viene morsa. La corsa disperata in città salverà la vita a lei, ma non al bambino (almeno a quanto dicono i medici). Non le resterà che rimanere nella sua terra e sposare un nuovo pretendente.

Se quando racconta le vicende dei contadini nelle terre dei Maya Bustamante mantiene uno stile abbastanza vicino al documentario, quando invece si muove in città diventa un indagatore sociale di ottima profondità, arrivando persino a portare lo spettatore a comprendere quanto l’ignoranza possa essere una fortissima arma di prevaricazione e di oppressione. La sua Maria è un personaggio evidentemente innocente che le circostanze portano ad essere coinvolto in un ingranaggio dal quale non ha alcuna possibilità di affrancarsi. Sarà costretta, così, a chinare il capo, ad accettare la perdita del figlio, a rinunciare ai propri sogni e ad adeguarsi alla continuità della tradizione. Contemporaneamente, però, Bustamante non si dimostra insensibile alle tradizioni stesse: in fin dei conti i suoi Maya sono gli ultimi discendenti di un popolo fiero e glorioso che, più o meno come gli indiani d’America, è stato costretto alla recessione culturale e vive in una situazione di totale sudditanza. Si potrebbe dire che non gli restano altro che le tradizioni, da perseguire anche a prezzo di ulteriori diminuzioni di libero arbitrio e libertà.

«Vulcano», pertanto, è un documento toccante e molto duro su uno di quei posti nel mondo nel quale si fa così perché così dev’essere come l’esperienza dei padri ha insegnato. Questa ambiguità è un peso insopportabile interamente caricato sulle spalle di Maria, che vorrebbe essere libera ma non può liberarsi dei legami col passato. Il bello di «Vulcano» è nella verità del dramma che racconta, accentuata dalla presentazione in lingua originale con sottotitoli. Si capisce bene, d’altronde, che i problemi di comunicazione non avrebbero avuto alcun senso in un film in cui tutti parlassero italiano. La verità è ancora ribadita dal fatto che gli attori non sono tali, ma gente del Guatemala che Bustamante ha scelto per quei volti che raccontano da soli una terra, una storia, un punto d’incontro tra passato e presente con la desolante assenza del futuro. Maria Mercedes Croy, in questo senso, è una Maria perfetta: allo stesso tempo fiera, ingenua e innocente, come un agnello sacrificale destinato ad essere immolato sull’altare. E l’altare, in questo caso, è il vulcano: identificato dall’animismo in divinità, è una presenza costante per gli anziani. Per Maria è soltanto il confine che la separa dalla libertà.

VULCANO (IXCANUL)di Jayro Bustamante. Con Maria Mercedes Croy, Maria Telòn, Marvin Coroy, Justo Lorenzo, Manuel Antùn. FRANCIA/GUATEMALA 2015; Drammatico; Colore