Viviane
Talvolta per capire meglio i rapporti che legano le persone in un paese piuttosto che in un altro potrebbe essere utile analizzare le leggi di quel paese e, senza pensare che ciò possa essere esaustivo, trarne delle conclusioni parziali. Shlomi e Ronit Elkabetz, fratello e sorella israeliani, ne danno un esempio abbastanza illuminante in «Viviane», film da essi scritto e diretto, che attraverso la disamina di una lunga causa di divorzio (cinque anni per la precisione) inquadrano l’uomo e la donna di fronte alla legge indicando paletti, preconcetti, tattiche, pregiudizi e, alla fine, quanto una normativa dettata dalla tradizione possa rappresentare per uno dei contendenti una gabbia molto simile a un ostacolo insormontabile.
E lo fanno, coraggiosamente, scegliendo una rappresentazione quanto mai scarna, priva di artifici drammatici, interamente basata sui primi piani e sulla scelta dei punti di vista, caratterizzata dalla costante permanenza nei locali del tribunale individuati nella sala d’attesa e soprattutto nell’aula del dibattimento. Il coraggio è premiato: «Viviane» è un film appassionante e assolutamente chiaro nello scopo che gli autori si sono prefissi: far capire, cioè, che una controversia del genere potrebbe essere destinata a non aver mai fine.
Viviane Amsalem chiede il divorzio per incompatibilità insanabile con il marito Elisha. I due sono sposati da anni, hanno dei figli, conducono un’esistenza apparentemente normale. Eppure tanto Viviane è decisa ad andare avanti per la propria strada quanto Elisha mostra di non avere alcuna intenzione di concedere il divorzio. Inizialmente Elisha non si presenta alle udienze e,per quanto sollecitato dal giudice, fa il possibile per allungare i tempi del dibattimento e condurre la moglie all’esasperazione. Poi si presenta e conferma la propria volontà di non sciogliere il matrimonio. Mentre le scritte in sovrimpressione ci informano con insistenza maniacale dello scorrere del tempo (due settimane dopo, tre mesi dopo, un anno dopo e via dicendo) gli avvocati interrogano i testimoni. E mentre Viviane mantiene dignità e calma, è il giudice a perdere la pazienza facendo in fin dei conti il gioco di Elisha. Anche quando l’uomo sembra convinto a pronunciare la formula del divorzio, il fatto di dover dichiarare la disponibilità della donna per qualunque altro uomo gli impedisce di terminare la dichiarazione prevista dalla legge. Solo un doloroso faccia a faccia potrà mettere fine alla lunga contesa.
I fratelli Elkabetz non sembrano tanto interessati a questionare sulla legittimità o meno della pratica del divorzio, quanto piuttosto a radiografare un paese (Israele tutto, non essendo specificato mai in quale località ci troviamo) nel quale pare che il tempo non passi. È evidente, infatti, che una contesa tra un uomo e una donna vedrà comunque partire il maschio in posizione favorita: per la normativa, per i precedenti e persino per l’atteggiamento dei giudici. Sarà opportuno ricordare a questo punto che in Israele non esiste il matrimonio civile e che quindi non è la giustizia ordinaria a deliberare su casi del genere. Giudici sono i rabbini e perché la convenuta possa avere quanto chiede (il Gett, il documento del divorzio) è necessario il pieno consenso del marito.
Questo porta inevitabilmente alla conclusione che un marito possa avere più potere di un rabbino: qualunque sia la decisione della corte, senza l’accettazione dell’uomo la sentenza non potrà essere esecutiva. Shlomi e Ronit Elkabetz esprimono tutto questo con una reiterazione che conduce anche lo spettatore a una sorta di esasperazione che dovrebbe corrispondere allo stato d’animo della donna. Espressivamente è fondamentale il fatto che, a parte il finale, il punto di vista sia sempre quello dell’interlocutore in una incalzante successione di primi piani che ci aiutano a capire il filo forse sottile ma molto robusto che lega il passato e il presente senza che si possa avere idea di un’ipotesi di futuro. E Ronit Elkabetz, oltre che sceneggiatrice e regista competente, si dimostra anche straordinaria interprete del ruolo principale in un ritorno alle radici del cinema che non fa sconti ad attori mediocri.