VINCERE

DI FRANCESCO MININNI

Quel che resta di «Vincere» di Marco Bellocchio è una ricerca stilistica complessa, meditata e ricca. Quel che invece va è la sua ostinazione nella polemica contro bersagli che sono più o meno sempre gli stessi e che, nonostante Bellocchio, resistono incrollabili. Certo, si prende atto del fatto che «Vincere» non è né un film su Mussolini né sul ventennio fascista, nonostante accurate ricerche storiche minuziosamente documentate. Il film parla d’amore, di un amore totalizzante che cercò invano di opporsi al progredire della storia finendo per decretare la rovina dei più deboli in attesa del crollo del più forte. E lo fa con l’evidente intento di rinverdire i fasti del melodramma (come dimostra l’uso espressivo importante della musica di Giuseppe Verdi) e di dichiarare un amore sconfinato per l’arte cinematografica nelle sue componenti più storiche, più classiche, più immortali. A fianco di tutto questo, che non è poco, una scontata rilettura di polemiche mai sopite contro le tanto deprecate istituzioni: lo Stato, la Chiesa, la magistratura, la famiglia. Pertanto, se da una parte non si può che apprezzare lo sforzo espressivo di un autore nel pieno della maturità, dall’altra si deve comunque prendere atto di una vena polemica che, per forza di cose, sta andando verso la naturale consunzione.

Ida Dalser, la moglie segreta di Mussolini cui dette il figlio maschio Benito Albino, si illude che un amore tanto coinvolgente e trascinante possa davvero essere quello della vita. Così, quando il socialista si trasforma in fascista e accantona ogni episodio privato in nome dell’ascesa pubblica, lei non molla e, a costo di essere dichiarata pazza e internata in manicomio, continua a gridare una verità che nessuno vuol sentire. Sia lei che il figlio moriranno in due diversi istituti, lei nel 1937, lui nel ’42.

Interessa soprattutto, in «Vincere», l’uso del cinema come reperto storico. Al di là del meraviglioso frammento de «Il monello» di Chaplin, è interessante l’uso dei cinegiornali Luce attraverso i quali Ida, da spettatrice, segue l’ascesa dell’amato Benito. Perché, se il Mussolini socialista è interpretato benissimo da Filippo Timi, il fascista è rappresentato unicamente attraverso i documenti d’epoca. Come a dire, tra l’altro, che tra le due facce della persona correva comunque una bella differenza. Così, mentre il rapporto tra Ida/Mezzogiorno e Benito/Timi è improntato alla passionalità più aggressiva, quello tra Ida e il Duce è freddo e distante, come tutti i rapporti che intercorrono tra una persona vera e un’immagine. Ed è anche questo il motivo per cui la seconda parte del film, finita la passione, procede più stancamente tra ospedali psichiatrici, suore infermiere che rappresentano il regime, gerarchi da operetta e, naturalmente, un finale che la storia ha già scritto da tempo. Ci si chiede se, accantonando per una volta una necessità quasi fisiologica di attacco alle istituzioni, Bellocchio non sarebbe forse in grado di lasciar correre liberamente la propria ispirazione squisitamente artistica, quella che anche in «Vincere» gli permette di scrivere pagine di cinema tutt’altro che banali. Tant’è: ognuno vive la vita che vuole.

Giovanna Mezzogiorno riesce a non trasformare Ida Dalser in una macchietta urlante conferendole dignità e la giusta dose di rabbia. Filippo Timi è un Mussolini credibile e vigoroso, mentre nei panni di Benito Albino adulto svela tutti i problemi di una scelta sbagliata. La sua entrata in scena non fa pensare al figlio, ma al padre. E per un attimo «Vincere» perde la qualità surreale voluta da Bellocchio trasformandosi in un inspiegabile grottesco. Il più bravo di tutti è comunque il direttore della fotografia Daniele Ciprì.

VINCERE di Marco Bellocchio.Con Giovanna Mezzogiorno, Filippo Timi, Michela Cescon. ITALIA 2009; Drammatico; Colore