VICKY CRISTINA BARCELONA
DI FRANCESCO MININNI
Anche se i luoghi in cui ambienta i suoi film ci dicono che Woody Allen ha da tre anni fatto emergere la propria metà europea, in realtà resta cittadino del mondo. Profondamente convinto che gli esseri umani (sé compreso) non siano altro che patetici pupazzi in mano al destino e che, per quanto possano essere convinti di fare delle scelte, finiscono sempre per seguire percorsi obbligati che li lasciano pieni di domande e privi di risposte, Allen bilancia il proprio percorso tra dramma e commedia alternando opere ispirate ad altre di riporto. «Vicky Cristina Barcelona», con tutta la buona volontà, appartiene alle seconde.
E non tanto per difetti di psicologia o tecnica, perché i dialoghi (quindi l’interiorità dei personaggi) e i suoni e i colori appartengono comunque ai piani alti della scrittura cinematografica e dello stile compositivo: è proprio che la storia raccontata dal film mostra un andamento orizzontale che impedisce qualunque colpo di genio.
E Woody Allen, che ama scherzare con i luoghi comuni, questa volta non scherza abbastanza da non farli sembrare proprio ordinari.
Vicky e Cristina, amiche americane in vacanza a Barcellona, incontrano il pittore Juan Antonio, reduce da una separazione burrascosa, seduttore impenitente e naturalmente ricco di fascino e di estro. Mentre Vicky, in procinto di sposarsi, rifiuta a priori l’avventura, Cristina ci si butta a capofitto. Il ricomparire della ex di Juan Antonio, Maria Helena, complica le cose. Alla fine, dopo che anche Vicky ha ceduto al fascino ispanico, tutti riprenderanno le loro strade. In un certo senso, come se nulla fosse successo.
Barcellona ha un’importanza atmosferica per la storia del film, nel senso che una tale vicenda di passioni, se ambientata a Helsinki, non avrebbe avuto alcun senso. Ma non è così importante come la Londra di «Match Point». Sembra insomma che Allen, innamoratosi di personaggi che, Juan Antonio a parte, ha già più volte frequentato, li abbia poi inseriti in uno scenario che teoricamente avrebbe dovuto fare la differenza.
Accade invece che siano i personaggi, specificamente Vicky e Cristina, a prendere il timone, di modo da trasformare il tutto in qualcosa di obiettivamente già visto.
Di contro, la sezione spagnola del racconto sembra più governata dall’incombere del luogo comune: l’artista tormentato, la donna passionale capace di gesti estremi, il vecchio ancora sensibile al fascino femminile invocano a più riprese un lavoro d’archivio invece che di rinnovamento.
E se si arriva alla conclusione con la consapevolezza di aver comunque assistito all’esercitazione di un conoscitore dell’animo umano, resta il dubbio per un’opera che appare più interlocutoria che definitiva. Il pessimismo di Allen, ormai materia di studi scolastici, talvolta apre nuovi orizzonti, talvolta si accontenta di quelli già visitati. Di «Vicky Cristina Barcelona» sarà più facile ricordare l’interpretazione di Rebecca Hall (Vicky) che non qualche novità psicologico-esistenziale. D’altronde, Woody Allen continua a fare un film all’anno assumendosi integralmente il rischio dell’ispirazione altalenante. Tra prendere e lasciare, è ovvio, prendiamo. Ma dall’autore di «Zelig», «La rosa purpurea del Cairo», «Un’altra donna» e «Match Point», come si fa a non pretendere sempre qualcosa di speciale?