Veloce come il vento
Il progetto di Matteo Rovere su Veloce come il vento è ambizioso e difficile: sulla base della storia vera del pilota di rally Carlo Capone, costruire una vicenda di caduta (palese) e redenzione (tutta da interpretare) sullo sfondo della periferia romagnola con l’importante approfondimento di vicende familiari e un’ostinata volontà di non cadere nella tentazione di rappresentare gli ultimi come derelitti per vocazione ma neanche come santi potenziali in attesa dell’occasione giusta per mettere le ali. L’impresa è difficile perché, comunque la si metta, Rovere deve confrontarsi con una valanga di luoghi comuni che vengono un po’ dalla vita vera e un po’ (molto) dal cinema di genere. Veloce come il vento non riesce ad evitarli e alla fine può dirsi riuscito soltanto in parte.
La famiglia De Martino ha sempre vissuto nella velocità. Al momento l’automobilista di famiglia è Giulia, che gareggia nella categoria Gran Turismo sotto la guida del padre Mario. Quando questi muore, nei box dopo una gara, Giulia resta sola con il fratellino Nico e il meccanico Tonino. Forse intravedendo la possibilità di una sistemazione stabile, si rifà vivo il fratello maggiore Loris che, nonostante l’ostilità di Giulia, riesce a prendere fissa dimora nella cascina di campagna di famiglia portando con sé Annarella e una serie infinita di problemi legati al carattere, alla tossicodipendenza e a una naturale inclinazione per lo scarico di responsabilità. L’unione familiare avrà modo di rinsaldarsi quando Giulia gli chiederà di allenarla per vincere quel campionato che salverebbe la casa e la famiglia.
Veloce come il vento ha se non altro il pregio di non essere una storia a lieto fine. Nel senso che l’abbraccio tra fratello e sorella davanti a un cimitero dove lui ha parcheggiato la roulotte e pretende di abitare in pianta stabile è un’immagine abbastanza precisa di un avvenire incerto. Per arrivare a questo, però, Rovere deve passare attraverso una rappresentazione molto sopra le righe dove ogni eccesso dovrebbe essere studiato e controllato per non dare l’impressione di effettismo. Ora, per quanto non sia sua intenzione speculare sui fatti per trarre spettacolo da una storia triste e oltre tutto vera, non si può negare che spesso l’idea di realismo più vero del vero gli prenda un po’ la mano facendo sì che gli eccessi non siano identificabili con reazioni esasperate a una vita difficile, ma semplicemente con eccessi. In questo senso, il compito più difficile spetta a Stefano Accorsi che, a molti anni da «Radiofreccia», torna a parlare il proprio dialetto e a doversi confrontare con un personaggio estremo. Se da una parte l’esordiente Matilde De Angelis è una Giulia coraggiosa e dolorosamente partecipe di un sogno che potrebbe diventare un incubo, Accorsi sostiene tutto il peso di un personaggio borderline che, tra frustrazione, droga e memorie di un passato recente che lo spingono ora alla guasconeria ora all’ira ora alla depressione, non riesce a fare a meno di niente. Accorsi è bravo, ma deve confrontarsi con un personaggio troppo caricato per non cadere in qualche eccesso di repertorio. E Matteo Rovere, al suo terzo film, sembra ancora alla ricerca della misura giusta per convogliare rabbia e rancore in uno stile omogeneo.
Da segnalare anche un particolare marginale che ha comunque un certo peso: tutta la seconda parte del film, con la preparazione e lo svolgimento della gara definita «Italian Race», è concepita come un lungo spot pubblicitario per la Peugeot che da tempo ha Accorsi come testimonial. Automaticamente, questo non giova alla volontà di realismo dell’autore e rappresenta comunque una fonte di palese distrazione. Da ricordare ancora la bravura di Paolo Graziosi nel ruolo del meccanico Tonino e l’idea (giusta) che un sogno talvolta può rappresentare la sottile linea di demarcazione tra vita e autodistruzione. Apprezzate le buone intenzioni, attendiamo conferme o smentite.