Una volta nella vita
Ahmed Dramé, che nel film di Marie-Castille Mention-Schaar interpreta lo studente Malik, è il primo responsabile della nascita di Una volta nella vita (banalizzazione italiana dell’originale «Les héritiers», cioè gli eredi). È lui, infatti, ad aver vissuto in prima persona le vicende di quella seconda superiore nella banlieu di Créteil, a sud-est di Parigi. È lui ad aver vissuto un periodo scolastico difficile in una classe composta di differenti etnie accomunate dallo scarso interesse per le materie di studio. Ed è sempre lui che, coinvolto dalla professoressa Gueguen, si è convinto a partecipare con i compagni al concorso nazionale della Resistenza e della Deportazione indetto dal Ministero della Pubblica Istruzione.
L’esperienza gli ha talmente cambiato la vita da convincerlo a parlarne con Marie-Castille Mention-Schaar allo scopo di realizzare un film. E così è stato. Per far sì che le cose fossero il più possibile vicine alla realtà e anche perché dialoghi e atteggiamenti non si discostassero troppo da quelli autentici, Ahmed ha anche collaborato alla sceneggiatura. Ne consegue che Una volta nella vita non sia esattamente un film sull’olocausto, quanto piuttosto una storia di oggi che mostra quanto sia importante interessare e coinvolgere gli studenti per svegliarli da un torpore che ne segnerebbe le vite.
È palese che Marie-Castille Mention-Schaar non è Laurent Cantet. «La classe», cui Una volta nella vita fa spesso riferimento nel sottolineare le diverse etnie degli studenti e quanto questo possa influenzare profondamente l’andamento degli studi, era un film di un altro livello nel quale dialettica e verità arrivavano a vette di valore assoluto. Una volta nella vita, però, ha il buon senso di non ambire a tanto e si limita a un racconto pedagogico e didascalico con qualche facilitazione psicologica, qualche impennata drammatica di repertorio e una sorta di predestinazione al lieto fine che esclude ogni commento o riflessione su quale possa essere stata la vita di quei ragazzi dopo la scuola.
Eppure, anche così, ha una sua importanza educativa che ne raccomanda l’utilizzo in sede scolastica perché altri ragazzi siano coinvolti, perché la voce si diffonda e perché il cerchio non si chiuda mai. A tale scopo, Marie-Castille Mention-Schaar ha avuto l’ottima idea di scegliere Ariane Ascaride per il ruolo della professoressa e di affiancarle studenti veri che non avessero alcuna esperienza cinematografica. Così, se si può percepire soprattutto in qualche passaggio non indispensabile che la protagonista è una del mestiere, non si può fare a meno di rimanere coinvolti dal gran lavoro dei ragazzi.
Ahmed Dramé, Noémie Merlant, Geneviève Mnich, Stéphan Bak, Adrien Hurdubae e tutti gli altri non recitano: reagiscono agli stimoli della storia. Ciò appare evidente in una delle scene più intense del film, quando cioè il sopravvissuto Léon Ziguel (proprio lui, morto poco dopo la fine delle riprese) racconta alla classe la sua esperienza in un lungo monologo senza stacchi. Le lacrime di qualcuno, la luce che anima gli occhi di tutti, il silenzio rispettoso e partecipe corrispondono a una scoperta di se stessi e alla consapevolezza che al mondo c’è ancora qualche ideale per cui lottare, qualche traguardo che richiede impegno e serietà, qualcosa per cui vivere. Imprevedibilmente, l’autrice allontana qualunque retorica e trasforma un film potenzialmente ordinario in un preciso percorso educativo di cui si dovrebbe tener conto. Dal momento che quanto raccontato è accaduto, vuol dire che un altro mondo è possibile e che non ci vorrebbe neanche tanto per realizzarlo.
Poco importa se Una volta nella vita risente di una struttura troppo sintetica e di un’impostazione troppo semplicistica. In certi casi siamo ben disposti a sorvolare sui difetti tecnici, soprattutto quando i contenuti arrivano diretti al cuore.