Una lenta inarrestabile follia: «L’AVVERSARIO»
Non è, insomma, qualcosa che non ha vita: vive, pulsa, ha molto probabilmente una propria temperatura corporea che quasi sempre corrisponde a quella dell’autore. Per tutti questi motivi, l’autore ha sempre una precisa responsabilità: deve sapere cosa racconta, come raccontarlo, con quali finalità farlo. Venendo a mancare una di queste componenti, il cinema può essere molto bello e molto inutile. La storia raccontata da Nicole Garcia ne «L’avversario» è a questo riguardo emblematica. Ispirata a un autentico fatto di cronaca avvenuto nel 1993, ripercorre le tappe di una lenta, inarrestabile follia che porta Jean-Marc Faure (nella realtà Jean-Claude Romand) a uccidere genitori, moglie e figli al termine di diciotto anni di bugie. Faure, infatti, si spacciava per medico senza aver mai conseguito la laurea, diceva di lavorare come ricercatore in un’azienda farmaceutica senza essere mai stato assunto, vantava competenze finanziarie inducendo parenti e amici ad affidargli i risparmi e prosciugando i loro conti bancari per mantenere un elevato tenore di vita. Quando il castello di bugie cominciò a scricchiolare, Faure prima meditò il suicidio, poi prese l’altra, devastante decisione.
Un film come «L’avversario» può esistere soltanto se poggia su basi solidissime: psicologiche, sociali e soprattutto etiche. Ma Nicole Garcia arriva seconda. Della storia si era già occupato due anni orsono Laurent Cantet in «A tempo pieno», focalizzando esclusivamente l’aspetto monomaniaco di un uomo senza lavoro che, pur di non perdere la faccia, se ne inventa un altro inesistente: un reportage lucido, ricco di tensione psicologica, perfettamente calato in una realtà sociale in piena involuzione. Nicole Garcia, invece, focalizza tutto il racconto sul massacro finale e così facendo restringe il campo visivo: la storia di Faure è soltanto la storia di Faure e si fatica a crederla emblematica di una situazione più generalizzata.
E così, nonostante la straordinaria bravura del protagonista Daniel Auteuil, si esce dal cinema con un sospetto fastidioso e una domanda senza risposta. Il sospetto è quello di una narrazione a effetto che, pur prendendo le distanze dall’emotività del racconto, trasforma in thriller un dramma della solitudine. La domanda è sostanziale: in tempi come questi, in cui anche il conto della spesa può essere fonte d’angoscia, è realmente necessario gettare benzina sul fuoco invece di arrampicarsi sugli specchi per riscoprire le ragioni della speranza?