Un padre, una figlia
Al suo quarto film, il rumeno Cristian Mungiu conferma di conoscere benissimo il proprio paese, la propria gente, le problematiche interne. Ma, grazie a un rigoroso approfondimento psicologico, finisce per rendere i suoi temi universali. E soprattutto conferma uno stile essenziale, privo di acuti a sensazione, attentissimo alle atmosfere in interni ed esterni, rendendoci partecipi della sua ansia di indagatore del presente, delle sue domande spesso senza risposta, delle sue legittime preoccupazioni di cittadino rumeno e del mondo. Dopo la Palma d’Oro ottenuta con «4 mesi, 3 settimane, 2 giorni», con «Un padre, una figlia» ha vinto, sempre a Cannes, il premio per la migliore regia. Per quanto non siano i premi a indicare il valore di un autore, siamo sempre più convinti che Mungiu sia un autore da tenere in grande considerazione.
Romeo Aldea, apprezzato medico rumeno, ha una figlia, Eliza, che affronta l’esame di maturità con la prospettiva di una borsa di studio a Cambridge. Come ogni padre, vorrebbe il meglio per lei. Come molti, ha una vita privata complessa: un rapporto raffreddato con la moglie e un’amante, Sandra, che aspetta una sua decisione. Da un giorno all’altro le certezze di Romeo cominciano a vacillare. Eliza è aggredita da uno sconosciuto nei pressi della scuola. Qualcuno rompe un vetro di casa sua con un sasso ripetendosi con un finestrino dell’auto. Sua madre, molto anziana, ha un malore. Ma Eliza conta più di tutto. Romeo vorrebbe che la figlia non perdesse l’opportunità dello studio in Inghilterra e, pur di spianarle la strada, chiede aiuto a un potente che può pilotare il voto scolastico. E così, mentre crede di agire per il meglio, commette un errore dopo l’altro finendo addirittura nel mirino dei funzionari della Procura.
Mungiu racconta una verità incontestabile: l’idea di una generazione di rendere il mondo non migliore, ma più facile per la generazione successiva, porta inevitabilmente a conseguenze opposte. La prima delle quali è la presa d’atto di un paradosso reale: i passi compiuti da Romeo per aiutare Eliza inducono lei a fare una scelta morale imprevista e costringono l’uomo a capire che tutto ciò che accade è conseguenza delle sue azioni e che qualcuno desidera fargli pagare il conto.
Parallelamente Mungiu ci presenta un’immagine della Romania che in fondo non è molto diversa da tanti altri paesi del mondo: menzogna, corruzione, disonestà, amicizie interessate, scorciatoie che esistono ma hanno un prezzo. Tutto questo con un ritmo lento e riflessivo, quindi lontano da accelerazioni spettacolari. In più, e non è un elemento da poco, introduce alcune variabili che oscillano tra il surreale e il kafkiano. L’aggressione a Eliza ad opera di uno sconosciuto che rimarrà tale. La sassata alla finestra e quella al finestrino dell’auto. La sensazione di Romeo di essere seguito quando in realtà è soltanto un residuo di coscienza a tormentarlo.
In un certo senso «Un padre, una figlia» oscilla tra l’indagine realistica sulle derive di un paese e l’analisi di una situazione individuale con elementi di mistero, ossessione e angoscia riconducibili all’incubo quotidiano descritto da Michael Haneke in «Niente da nascondere». In sostanza Romeo, che a suo tempo ha deciso insieme alla moglie di tornare in Romania nella convinzione di poter cambiare le cose, adesso è sicuro di aver sbagliato e vorrebbe che ciò fosse risparmiato a Eliza. Vita desiderata e vita vera, però, raramente si incrociano. Così, come è giusto che sia, «Un padre, una figlia» è un film senza finale. Dargliene uno vorrebbe dire aver trovato la soluzione a tutti i problemi proposti. Invece Mungiu lascia che ognuno si confronti con quel che resta della propria coscienza.