UN GIORNO PERFETTO
DI FRANCESCO MININNI
E’ evidente come sia difficile coniugare l’amore per il melodramma (ossia l’amplificazione dei sentimenti) con il desiderio di raccontare qualche storia di oggi (ossia l’attualità, dove è necessario giocare a sottrarre per non rendere tutto eccessivo e poco credibile). Ferzan Ozpetek, cui nessuno disconosce doti di narratore e di appassionato analista dei sentimenti, è la rappresentazione vivente di questa contraddizione. Tanto più in «Un giorno perfetto», che non nasce da un suo personale progetto ma da un romanzo di Melania Mazzucco e che lo ha portato addirittura a cambiare la squadra produttiva (da Gianni Romoli e Tilde Corsi a Domenico Procacci). Apparentemente si tratta di una storia un po’ lontana dagli abituali interessi dell’autore, proprio nel legarsi alla dura attualità di un matrimonio allo sfascio con previsione di conclusioni nerissime. E invece, osservando attentamente, una continuità è presente sia da un punto di vista di stile che di significato.
L’amore tra Emma e Antonio è finito ormai da un anno. Lei cresce i due figli, Valentina e Kevin, e lui vive da solo nella casa che abitarono insieme. Ma Antonio non si rassegna: è in analisi, è convinto di stare bene e soprattutto non riesce a concepire la propria esistenza senza Emma, che invece sa bene che tutto è finito. Così farà un ultimo tentativo. Intorno a questa strada principale si diramano numerose traverse: un onorevole in crisi politica, un compleanno, una maternità indesiderata, conflitti generazionali, una città freddina che non dà alcun aiuto.
Se Ozpetek pensava di dare una lucidata al melodramma trasformandolo in realtà vera, bisogna dire che si è sbagliato di grosso. Ha sbagliato a punteggiare il racconto di tante vicende trasformandolo in una storia corale tipo «Saturno contro», ha sbagliato permettendo ad Andrea Guerra di sparare una colonna musicale a tutto volume che non di rado rievoca i super-violini de «La sconosciuta», ha sbagliato a non lasciare ai suoi protagonisti alcun margine di scoperta e/o sorpresa finendo per rendere tutto molto prevedibile e quindi non emozionante, ha sbagliato (per l’ennesima volta) nel confezionare un prodotto che, invece di avere una vita stilistica propria e l’impressione di una necessità, si avverte concepito il più possibile per compiacere il pubblico (si direbbe una ruffianata, insomma). Non ha sbagliato nella scelta degli attori, che d’altronde corrisponde alla sua sopravvivenza: Isabella Ferrari imbruttita e decadente, Valerio Mastandrea freddamente disperato, Stefania Sandrelli quasi senza trucco, Monica Guerritore sorprendentemente partecipe e intensa. Ma su tutti, e lo diciamo con ammirazione e tanta simpatia, un’Angela Finocchiaro che, con tre scene e tre sguardi, si ritaglia un posto d’onore che meriterebbe qualche riconoscimento. Nel pasticcio sentimentale e ideologico allestito da Ozpetek c’è da segnalare un’importante assenza: nessuna tematica gay. Ma contemporaneamente bisogna prendere atto di una tematica in certo qual modo parallela: il fallimento tra Emma e Antonio, la freddezza tra l’onorevole e la moglie Maja, il sentimento impossibile del figliastro Aris per la matrigna (sempre Maja), portano inevitabilmente alla conclusione (già più volte adombrata da Almodovar) che ogni rapporto di coppia che preveda due contendenti di sesso diverso è inevitabilmente destinato a fallire o a non iniziare nemmeno. Se il pensiero di Ozpetek è questo, avremmo molte prove viventi che si tratta di un pensiero completamente sbagliato. Ciò nulla toglie al destino di «Un giorno perfetto»: sarà sicuramente uno dei maggiori successi della stagione.