Un addio alla perduta infanzia: «Pinocchio»

DI FRANCESCO MININNICon «Pinocchio» di Roberto Benigni bisogna proprio cominciare dalla fine, dalla cosa più bella del film: quando Pinocchio, diventato un bambino vero e incamminato verso la scuola, proietta sul muro l’ombra del burattino con il cappellino di mollica di pane. E quando Pinocchio entra a scuola, l’ombra resta fuori e vola via insieme alla farfalla azzurra. Tutto questo è straordinariamente poetico e dice chiaramente quale sia il punto di vista di Benigni, non esattamente quello di Collodi: la bellezza, cioè, dell’infanzia di Pinocchio con tutte le sue monellerie e disavventure e, in un certo senso, la tristezza del «dovere» di diventare adulti perdendo quella insostituibile libertà. Con quell’ombra Benigni, oltre a dire la sua, rende omaggio a tante persone che hanno inventato il cinema: da Meliés, con i suoi trucchi da prestigiatore, a Chaplin, con le sue piroette e la sua tristezza. E a questo punto bisogna dire: peccato che «Pinocchio» non sia tutto come questi bellissimi minuti finali.

Noi, pronti a difendere Benigni anche al di là dei suoi meriti, siamo tuttavia sempre più convinti che il monellaccio di Vergaio abbia una grandezza ancora da scoprire, che lui stesso trova difficile esprimere appieno. E, visto il film, non poteva certo essere «Pinocchio» il veicolo giusto per farlo. Da una parte perché il testo di Collodi (come qualunque altro testo non uscito dalla personale fantasia di Benigni) è qualcosa di già scritto e pensato da altri, quindi limitativo per chi intenda accostarvisi con il dovuto rispetto. Dall’altra perché, per motivi che non conosciamo e che neanche possiamo immaginare, questa volta Benigni non ha dato via libera alla propria immaginazione che, come ben sappiamo, spesso diventa poesia.

In una parola, «Pinocchio» ci ha lasciati indifferenti.Belle le scenografie di Danilo Donati, più nel villaggio di Geppetto che nel paese dei balocchi; bella la fotografia di Dante Spinotti; orecchiabili, ma un po’ ripetitive, le musiche di Nicola Piovani. «Pinocchio» è un film molto costoso con un protagonista assoluto, una coprotagonista (ovviamente la moglie di Benigni, Nicoletta Braschi) e tante comparse. Nessuno dei comprimari, da Carlo Giuffrè a Kim Rossi Stuart ai Fichi d’India a Peppe Barra, ha la possibilità di emergere, confinato in secondo piano dall’esuberanza totalizzante del protagonista. Che però, a ben guardare, sbaglia qualcosa: non ha il coraggio di essere burattino fino in fondo e, a parte una voce un po’ piagnucolosa che forse poteva essere ben sostituita da quella «naturale», non può fare a meno di essere Benigni. Quel Benigni che vorremmo grande e che invece continua a ricacciarsi da sé medesimo nel limbo «di color che son sospesi».