Tutto il mio folle amore

Ma più di tutto, a reggere l’urto del tempo, resta vivo il desiderio di fuga, che è sia un allontanarsi dalle proprie responsabilità sia il bisogno di cambiare.

Si direbbe quasi che in Salvatores continui a persistere un sottofondo di anarchia (più sociale che artistica) che torna a farsi sentire da quando, in Marrakech Express, gli amici che decidevano di partire per il Marocco alla ricerca dell’amico scomparso, coglievano al volo l’occasione per staccare dalla routine, dalla famiglia, dagli obblighi sociali e dalla noia. Poi, con gli anni che passano, sembra che l’obiettivo cambi. Ma è soltanto apparenza: il punto d’incontro tra un figlio e un padre che praticamente non si conoscono, in Tutto il mio folle amore, corrisponde a una fuga, alla rilettura di certi rapporti consolidati, alla necessità di un bruco di librarsi come farfalla. Cambiare, cioè dare un taglio al passato, equivale per Salvatores all’unico modo di trovare un posto attivo nella vita.

Il sedicenne Vincent (così chiamato a causa della passione dei genitori per la canzone di Don McLean) soffre di forti disturbi della personalità, di una sorta di autismo che lo rende talvolta molto difficile da controllare. Vive con la madre Elena e il patrigno Mario, che lo ha legalmente adottato. Il padre biologico, Willi, è sparito dalla scena all’annuncio della gravidanza e non si è mai voluto interessare della sua crescita. Ora, però, Willi ricompare e chiede soltanto di vederlo. Mentre Elena desidera fortemente che ciò non avvenga, Vincent la pensa diversamente e si nasconde nel pickup di Willi svelandogli la propria presenza solo a viaggio abbondantemente iniziato. Willi, ribattezzato da qualcuno il Modugno della Dalmazia, sta andando in Slovenia e in Croazia per esibizioni canore a matrimoni e fiere paesane e proprio non può riportare indietro il ragazzo. Così Elena e Mario (lei sicura del rapimento) partono per cercarli. Strada facendo, naturalmente, Willi e Vincent si conosceranno e il ragazzo vivrà esperienze che la madre avrebbe sicuramente impedito.

Nel romanzo di Fulvio Ervas da cui il film è tratto Vincent era dichiaratamente autistico. Salvatores invece racconta una malattia senza nome che prevede sbalzi d’umore, grande tenerezza alternata a rabbia furiosa, in tutti i sensi una sorta di prigione da cui Vincent ha assoluta necessità di evadere. Per il suo percorso, l’autore torna a uno dei propri espedienti narrativi più amati, cioè il film on the road, che gli permette sia di esplorare nuovi paesi (come in Educazione siberiana paesi dell’Est europeo) sia di allontanarsi anche fisicamente dal luogo che dovrebbe rappresentare la prigione.

Così Vincent diventa latore di un messaggio di quasi disperata ricerca di vita quando tutto il resto del mondo vorrebbe costringerlo alla malattia. E Willi, che come lui dà segnali di una personalità spesso infantile non pienamente sviluppata (anche se non per motivi di salute), dovrà per forza di cose prendere atto del ruolo paterno che non ha mai voluto. Così, mentre Mario osserva con una sorta di ironia distaccata, anche Elena sarà costretta a prendere atto del fatto che esiste un padre che Vincent ama e che non si può cancellare con un colpo di spugna. Naturalmente, mentre Salvatores ritrova le proprie radici, paga anche un pedaggio ai luoghi comuni e a tutto ciò che deve accadere perché le cose vadano dove lui vuole. Giulio Pranno, che interpreta Vincent, potrebbe far pensare a un malato vero. Invece è soltanto un attore che fa benissimo il proprio lavoro.

TUTTO IL MIO FOLLE AMORE di Gabriele Salvatores. Con Diego Abatantuono, Valeria Golino, Claudio Santamaria, Giulio Pranno. ITALIA 2019; Drammatico; Colore.