Torneranno i prati
Tornato provvidenzialmente al suo minimalismo, alla sua gente comune, alle sue montagne dopo una deriva antireligiosa e troppo simbolica che aveva prodotto «Centochiodi» e «Il villaggio di cartone», Olmi torna ad essere il maestro di un presente che si interroga sul passato per superare le troppe difficoltà di guardare al futuro. E lo fa alla sua maniera: girando rigorosamente nei luoghi dell’azione, non concedendo alcunché allo spettacolo, concentrandosi sui volti come faceva Ejzenstejn, spogliando la guerra di romanticismo, umanità spicciola, battute da caserma, dietrologia, idealismo, patriottismo e quant’altro.
«Torneranno i prati» è un film nudo. In esso sono presenti episodi di repertorio: un’epidemia di febbre, un ufficiale che polemizza con gli ordini superiori in quanto impossibili da realizzare, un soldato che canta suscitando gli applausi sia dei commilitoni che degli austriaci, la trincea piena di fango e sepolta dalla neve, la missione impossibile in una notte di luna piena quando ad ogni ombra che si muove corrisponde una fucilata.
Ma Olmi non intende rifarsi a modelli classici, pur alti, come «Orizzonti di gloria» di Kubrick, «All’Ovest niente di nuovo» di Milestone, «Uomini contro» di Rosi o «La grande guerra» di Monicelli. La guerra è la stessa, le intenzioni sono altre. Riducendo al minimo i dialoghi, azzerando l’azione, trasformando il nemico in presenza costante ma invisibile, l’autore torna alle radici del cinema quando si diceva tutto con l’immagine e proietta il pubblico in un campo aperto che è il massimo della claustrofobia, una sorta di labirinto le cui uscite sono gestite da un’entità superiore che sembra divertirsi a spostarle perché chi ne è prigioniero non riesca a trovarle. E così la guerra resta lì, minacciosa e inutile, letale e illogica a ricordare a tutti che tra i molti modi di morire quello deciso da qualcun altro in nome di un ideale che ha anche altri modi per essere difeso è uno dei peggiori.
I soldati, a due passi dalla trincea nemica, attendono o la pallottola che prenderà la loro vita o l’arrivo del rancio e della posta, unica occasione nella quale qualcuno pronuncerà il loro nome. Gli ordini arrivano, emanati da qualcuno che è seduto a una scrivania, non conosce la conformazione del terreno e sa soltanto che c’è un obiettivo da raggiungere. I caduti saranno sepolti nella neve. Poi, al ritorno della primavera, torneranno i prati e qualcuno verrà a raccogliere i resti. Oppure l’erba nuova cancellerà le tracce della tragedia che si è consumata e del dolore che altri hanno vissuto. Come dice un soldato: «Di quel che c’è stato qui non si vedrà più niente e quello che abbiamo patito non sembrerà più vero».