«TIME»

DI FRANCESCO MININNIQuando Kim Ki-Duk trova il passo giusto e si tira fuori da pericolosi estremismi ideologici, sa essere un poeta che, senza allontanarsi dalle tristezze del mondo, sa trarne bellezza, fascino e, naturalmente, crudeltà. A dire la verità, il «nostro» Ki-Duk è rimasto quello di «Ferro 3», alla ricerca di una libertà che, in fin dei conti, poteva essere soltanto sognata. Lo ritroviamo oggi in «Time», il film più pirandelliano dai tempi di «Zelig» (quello di Woody Allen, non il cabaret di Italia 1), capace di attraversare indenne un argomento difficilissimo quale l’accettazione del proprio volto, quindi di sé, tenendosi in equilibrio tra melodramma, horror e paradosso con una forza e una sfiducia nell’umanità che a tratti evocano il miglior Antonioni. Senza le asprezze e le perversioni di molto cinema coreano, Ki-Duk ci racconta chi siamo, chi vorremmo essere, chi non saremo.

See Hee e Jin Woo si amano e vivono insieme da due anni. See Hee, però, è convinta che lui sia stanco della sua faccia e, dopo aver maturato una gelosia quasi patologica, decide di ricorrere alla chirurgia estetica per cambiarsi i connotati. Dopodiché, passeranno mesi prima che possa tornare a mostrarsi all’amato. E anche di più: in un certo senso See Hee aspetterà di incontrarlo «per caso» e poi, senza dichiararsi nella sua vera identità, di farlo nuovamente innamorare. Ma, dal suo punto di vista, Jin Woo si innamorerà di un’altra…

È chiaro che il paradosso di Kim Ki-Duk investe la sfera di quel particolare problema psicologico che si definisce «accettazione di sé» e che l’autore lo percorre senza appendici scientifiche, ma sfruttando al massimo le possibilità visionarie offerte dal racconto. Il tutto è comunque affascinante, in certo qual modo appassionante e raggiunge il suo climax nella scena in cui i due innamorati si incontrano in un bar. Lui con la propria faccia, lei con una maschera ricavata da una fotografia della faccia di prima. Uno, nessuno, centomila e quant’altro. Ma la vera domanda è: ci si conosce talmente poco da non essere in grado di riconoscersi soltanto perché si ha una faccia diversa?

Ki-Duk racconta tutto questo riuscendo, almeno fino a pochi passi da una conclusione che naturalmente è un inizio, a non cedere alla tentazione di esagerare oltrepassando quella linea che può trasformare il grottesco in ridicolo. Considerando il tipo di tematica affrontata e le caratteristiche del suo stile, bisogna dire che l’autore ha fatto veramente miracoli. Si esce da «Time» con la precisa sensazione che tutto quanto abbiamo visto ci riguardi da vicino: basta pensare che non è indispensabile ricorrere alla chirurgia per cambiare faccia e il gioco è fatto. Ma, naturalmente, è tutt’altro che un gioco.

TIME (Id.) di Kim Ki-Duk. Con Jung-Woo Ha, Hyeon-a Sung. COREA 2006; Drammatico; Colore