THE WRESTLER
DI FRANCESCO MININNI
Tanti film sul pugilato, nessuno sul wrestling. Il punto è che i due sport non hanno così tanti punti di contatto e che il wrestling vive comunque di una fama quasi circense, di spettacoli preparati a tavolino con mosse concordate, di legnate che se fossero vere ammazzerebbero un toro, di folklore, di abbigliamenti più che pittoreschi. Insomma, di un alone mitico che basta poco a ricondurre sulla Terra. Si ricorderà che anche Rocky Balboa, all’apice della carriera, si prestava a salire sul ring del wrestling per un’esibizione estemporanea. Tanto più inatteso arriva il successo a sorpresa di «The Wrestler» di Darren Aronofsky, premiato a Venezia con il Leone d’Oro e ignorato nella notte degli Oscar, quando forse Mickey Rourke ci aveva fatto un pensierino. A cose fatte, non è facile spiegarsi il motivo di un simile exploit. Da una parte un attore ormai relegato in ruoli da caratterista che improvvisamente ritrova, con la complicità di fortissimi richiami autobiografici, lo smalto del mattatore. Dall’altra un regista che, venendo da film come «? Il teorema del delirio», «Requiem for a Dream» e, soprattutto, «L’albero della vita», si fatica a ritenere capace di miracoli. La realtà, a nostro parere, è che «The Wrestler» è un film convenzionale reso di livello superiore da due magnifici protagonisti.
Randy Robinson, detto «the Ram» (l’Ariete), è un ex-campione di wrestling ridotto dall’età e da vari acciacchi ad esibirsi in combattimenti di basso livello. Due le donne della sua vita: la spogliarellista Cassidy, con cui vorrebbe stringere un rapporto serio senza mai riuscirvi, e la figlia che non gli parla da anni e con la quale, quando sente aggravarsi la propria salute, tenta di riallacciare un dialogo che lei sembra rifiutare. Un infarto e un by-pass gli chiudono la strada del ring. Ma la prospettiva di un match di rivincita con il Talebano, che richiamerebbe pubblico e stampa, lo fa tornare sulla sua decisione. Soprattutto quando, per proprie colpe, la figlia gli chiude definitivamente la porta in faccia. Randy sa che per lui sarà l’ultimo incontro, ma sale ugualmente sul ring.
Francamente, anche se non applicate al wrestling, ne abbiamo viste già un centinaio di storie come questa. Storie di perdita di dignità, di difficoltà di crescita, di kamikaze votati alla morte, di un’umanità dolente che nasconde dietro le luci della ribalta tutto il peso di un’esistenza fallita. E Aronofsky tenta invano di rivitalizzarla con immagini sporche, con un lavoro quasi incessante della macchina a mano, con una minuziosa indagine sul volto distrutto del protagonista. Tutto questo si nota e in qualche caso (l’entrata di Randy nel centro commerciale come fosse un ring, il bel finale con dissolvenza in nero che lascia allo spettatore l’ultima decisione sul suo destino) se ne rileva anche l’efficacia espressiva. Ma resta il fatto che ogni svolta del racconto è ampiamente prevedibile con largo anticipo e che la tematica esistenziale appare già ampiamente sfruttata. Le luci della ribalta, quelle vere, spettano non ad Aronofsky, ma ai suoi due protagonisti. Mickey Rourke trasmette a Randy tutta la rabbia e la disillusione di una vita quasi vissuta in parallelo. Marisa Tomei, nel ruolo di Cassidy, è se possibile anche più brava di lui a disegnare un personaggio che, pur vivendo ai margini, cerca disperatamente di non farsi trascinare nel baratro. Alla fine sono loro due i vincitori. E per «The Wrestler» avrebbe avuto più senso un riconoscimento all’interpretazione di un Leone d’Oro abbastanza incomprensibile.