The Way Back
Ci sono voluti due anni perché l’ultimo film di Peter Weir, «The Way Back», trovasse distribuzione in Italia. Non stiamo parlando di un debuttante iraniano o di un intellettuale bulgaro, ma di uno dei registi più personali, originali e coinvolgenti del cinema contemporaneo, che da «Picnic ad Hanging Rock» a «Gli anni spezzati», da «The Truman Show» a «Master & Commander» è riuscito a costruire uno stile proprio, a mantenere un’identità, a rendersi inconfondibile, a stimolarci con percorsi allo stesso tempo realistici e metaforici, a condurci in una terra di mezzo nella quale si diventa grandi, ci si interroga su se stessi, talvolta si sparisce. Eppure «The Way Back» non ha trovato posto nelle nostre sale. Tratto dal libro autobiografico del polacco Slavomir Rawicz, che a suo tempo la BBC tentò di smentire con un documentario, in fin dei conti non racconta una storia vera. Partendo da un dato storico, la fuga di sei prigionieri da un gulag siberiano prima verso il Tibet, poi fino in India, il film racconta l’aspirazione dell’uomo al diritto basilare, la libertà, e quante traversie si possa essere disposti ad affrontare pur di raggiungerla.
Janusz, ufficiale polacco accusato di tradimento, è imprigionato nel 1939 dai russi in un gulag in Siberia. Qui, dovendo affrontare umiliazioni e ristrettezze, il giovane matura la ferma volontà di fuggire per raggiungere il Tibet, non ancora intaccato dal comunismo. Si uniscono a lui un lettone, un kapò comunista facile alla violenza, un americano di poche parole, un’orfana polacca, un cieco notturno e altri due compagni di prigionia. Dopo aver attraversato la Siberia, la Mongolia, il deserto del Gobi, parte dell’Himalaya e la grande muraglia cinese, saranno in tre ad arrivare in India accolti dagli inglesi. Senza passaporto. Ma, come dice l’ufficiale che li accoglie, «non importa».
È evidente che il rapporto intenso e traumatico tra l’uomo e la natura è il dato stilistico più riconducibile al cinema di Weir, con paesaggi meravigliosi per chi osserva dal di fuori, ma altrettanto pericolosi e ostili per chi è costretto ad affrontarli dal di dentro. È anche evidente che «The Way Back» non è un film concepito per il grande pubblico, troppo abituato ad avventure che raramente hanno il ritmo della realtà e preferiscono quello della finzione. Insomma, «The Way Back» è un film lento perché il cammino dei fuggiaschi verso la libertà non poteva essere un’avventura pirotecnica ma doveva avere un ritmo il più vicino possibile a quello della realtà in modo da rendere partecipe il pubblico delle difficoltà del cammino e di quanto possa esserci voluto a percorrerlo. C’è da dire, però, che per una volta Weir non ha voluto, o potuto, inserire nel racconto le sue astrazioni tra magia e metafisica, tenendosi per quanto possibile molto vicino al significato letterale. E alla fine si capisce anche perché: perché con tutta la precisione dei riferimenti storici, delle date, degli avvenimenti, «The Way Back» non è soltanto una metafora del cammino dell’uomo verso la libertà, ma è ancor più una cronaca del progressivo crollo del comunismo. Se il dato storico è incontrovertibile, quello artistico, però, perde di vigore. La libertà creativa di Weir, che ha avuto modo di risplendere anche nella cronaca dell’assedio inglese al porto di Gallipoli, qui si ritrova invece frenata da un recinto storico troppo vincolante. Tanto che, alla fine, il ricongiungimento di Janusz con la moglie al momento della vittoria polacca di Solidarnosc ha più il sapore del semplice lieto fine che di un sogno che diventa realtà. Diventa cioè un traguardo collettivo nel momento in cui le grandi vittorie (o sconfitte) di Weir sono sempre rigorosamente individuali. Restano la nobiltà dell’intento, l’eccellenza della fotografia di Russell Boyd e un cast di attori in cui primeggiano Jim Sturgess (Janusz) e Ed Harris (l’americano, ovvero Mister Smith). E resta comunque un autore che, giusto o sbagliato, non sarà mai banale o ordinario.