The Idol
Di Abu-Assad ricordiamo «Paradise Now», storia di due kamikaze dai diversi destini, che guadagnò una nomination all’Oscar. Non conosciamo invece «Omar», seconda nomination, sulle aspirazioni di lotta per la libertà di quattro amici palestinesi. Ora The Idol affronta l’argomento più difficile: la storia vera di Muhammad Assaf che, da Gaza, è riuscito ad arrivare al Cairo, a partecipare al programma musicale «Arab Idol» e a vincerlo diventando una bandiera della volontà palestinese e dell’aspirazione a sogni realizzabili e più che legittimi nonostante le proibitive condizioni di vita. La difficoltà è molteplice. Da una parte il confronto con «The Millionaire» di Danny Boyle che, essendo improprio, decade immediatamente. Il film di Boyle è un sogno visto dal di fuori, senza profondità e con l’ambizione di emulare lo stile di Bollywood. The Idol è un’esperienza dall’interno, profondamente radicata nella storia e con un significato simbolico ben preciso. La difficoltà, casomai, risiede nei rischi della rappresentazione che si presta a facile retorica e a una prevedibilità di contenuto. In parte Abu-Assad è riuscito a evitarli.
Muhammad Assaf vive a Gaza con la famiglia, ma soprattutto con la sorella Nour che, incurante delle limitazioni che il sesso femminile comporta, si intestardisce a voler formare una band di coetanei che guadagnerà qualcosa suonando ai matrimoni. Muhammad ha una bellissima voce e ama cantare. Naturale, quindi, che l’orchestrina riscuota qualche successo. Tutto, però, sembra finire quando Nour, ammalata ai reni e priva di mezzi per le cure appropriate, muore in ospedale. Passeranno dodici anni prima che Muhammad si riscuota dal dolore e dal successivo torpore e, memore degli insegnamenti della sorella, decida di partecipare a «Arab Idol» nonostante le difficoltà per lasciare la propria terra. Farà di tutto per riuscire: un visto falso, un’identità contraffatta, l’imprevedibile aiuto di uno dei ragazzi di una volta nel frattempo divenuto guardia di frontiera. Superando ogni ostacolo arriverà in finale e vincerà facendo esultare tutto il popolo palestinese. Oggi è ambasciatore dell’Onu e continua a cantare con successo. Ma le difficoltà per ottenere i visti per lasciare Gaza e rientrarvi permangono.
The Idol è nettamente diviso in due. La prima parte, quella dell’infanzia e adolescenza, è di gran lunga la più riuscita, non foss’altro perché la realtà tangibile della minaccia, dell’incertezza, della rabbia e dell’ingiustizia è rappresentata con grande realismo, per così dire, in diretta da Gaza. La seconda, più precisamente dal momento della partenza di Muhammad fino alla vittoria finale, non può proprio fare a meno di una rappresentazione convenzionale, sentimentale e, rispetto ai ritmi della prima, forse troppo frettolosa e sintetica. C’è anche da dire che film come questo non ricevono mai un buon servizio dal doppiaggio, che porta sempre troppo distanti dallo spirito originale. Si invoca l’edizione originale con sottotitoli, anche se la vendibilità del prodotto potrebbe essere inferiore. Resta, naturalmente, l’idea di base, dominante rispetto a qualunque errore di percorso: ogni eventuale rinuncia ai propri sogni, anche in condizioni di vita difficilissime, corrisponderebbe automaticamente alla morte interiore. Per cui passa il messaggio che, se anche Muhammad è uno che ce l’ha fatta, è molto difficile pensare che la sua vita attuale possa essere realmente felice al pensiero di una terra ancora martoriata e universalmente non riconosciuta come Stato. Tra gli attori, genericamente efficaci soprattutto se in età adolescenziale, spicca Hiba Atallah che nella parte di Nour rappresenta con convinzione spirito motore, ostinazione, volontà e speranza.