The hateful eight
A partire dal titolo che, oltre alla contrapposizione suddetta, contiene il numero 8 ed è l’ottavo film di Tarantino. Poi qualche nome. Samuel L. Jackson è Marquis Warren, e Charles Marquis Warren è un regista di western come «La trappola degli indiani» e «La freccia insanguinata».
Jennifer Jason Leigh è Daisy Domergue, e Faith Domergue è un’attrice di western come «Duello al Rio d’argento» e «Satank la freccia che uccide». Sempre Jackson è un cacciatore di taglie, fuma la pipa ed è un maggiore: in «Per qualche dollaro in più» Lee Van Cleef era un cacciatore di taglie, fumava la pipa ed era un colonnello. C’è una diligenza, che non si riferisce necessariamente a «Ombre rosse» ma è comunque un accessorio indispensabile del western. Il gioco del West, però, potrebbe anche finire qui.
«The Hateful Eight» è talmente contaminato con il dramma esistenziale e il giallo alla Agatha Christie, che risulta persino difficile definirlo un western. Dal momento in cui gli otto sono riuniti nell’emporio di Minnie, sepolto nella neve, il film smette di essere un western e diventa, per così dire, un dramma da camera svelando progressivamente citazioni e debiti che vanno dall’autoreferenzialismo più sfrenato («Le iene», «Pulp Fiction» e «Kill Bill») ad Agatha Christie (in particolare «Dieci piccoli indiani», o meglio «E poi non ne rimase nessuno», e «Assassinio sull’Orient Express») e persino al fantahorror di John Carpenter «La cosa» e al cult di Sam Raimi «La casa».
Strada facendo, Tarantino non perde occasione per ridefinire i ruoli dei personaggi partendo dal presupposto che non esista la figura del buono e che quindi tutti siano destinati a una sorta di collera divina che li spazzerà via. In realtà i personaggi non sono caratteri, ma icone: il boia, lo sceriffo, il confederato, il piccolo uomo, il mandriano, il messicano, il cacciatore di taglie e la prigioniera. Il cacciatore di taglie, però, è un uomo di colore, ex-soldato dell’Unione, che porta con sé una lettera autografa del Presidente Lincoln che non sapremo mai se sia vera o falsa ma che comunque solleva qualche perplessità a proposito della grande democrazia americana, immagine di un fallimento epocale che costringe il nero a campare uccidendo fuorilegge e consegnandoli alla giustizia bianca. La prigioniera è una donna che, in virtù di tutte le botte che prende, finisce per diventare una sorta di strega splatter. Il boia, in realtà, sono due: uno così soprannominato, l’altro che dice di farlo per mestiere.
Insomma, Mr. White, Mr. Orange, Mr. Blue, Mr. Brown, Mr. Pink. Perché alla fine «The Hateful Eight» assomiglia più a «Le iene» che a tutto il resto: un gruppo di persone riunite in un ambiente chiuso dove nessuno può fidarsi di nessuno. Per arrivare a questo Tarantino scomoda il 70 mm., quasi tre ore di durata (più o meno, a seconda del formato di proiezione), gli scenari innevati del Wyoming che evocano «Il grande silenzio» di Sergio Corbucci e «La notte senza legge» di André De Toth, e un cast molto composito che affianca membri del suo clan (Jackson, Tim Roth, Michael Madsen) ad altri che pur avendo già lavorato con lui non possono dirsi habitué (Kurt Russell, Walton Goggins e Demiàn Bichir) a new entry (Jennifer Jason Leigh, Channing Tatum). E scomoda anche Ennio Morricone, che ottiene il notevole risultato di comporre musica che non lo faccia immediatamente riconoscere.
Però resta un gioco, lungo, verboso e a un certo punto prevedibile. Con una fulminante trovata slapstick (il pugno a Daisy che la proietta fuori della diligenza con il Boia, legato a lei con una catena, che la segue a ruota) che non basta a fare tendenza.
(Id.) di Quentin Tarantino. Con Samuel. L. Jackson, Kurt Russell, Tim Roth, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins. USA 2015; Western; Colore