«TARTARUGHE SUL DORSO»

DI FRANCESCO MININNIC’è una parte di cinema italiano (che oggi, dai suoi detrattori, viene solitamente definito «il» cinema italiano) le cui storie sono attraversate da personaggi votati a un destino ineluttabile e solitamente negativo. Contemporanei, irrequieti, predestinati alla sofferenza, che soltanto un inguaribile ottimista o un distratto riuscirebbero a incanalare in un percorso di speranza. Stefano Pasetto, che viene dal cortometraggio e dal documentario, ha le sue motivazioni: chi racconta una storia come questa, deve averne per forza. Ma «Tartarughe sul dorso», suo lungometraggio d’esordio, non riesce mai a trovare il guizzo che gli permetterebbe di uscire dalla maniera.

A Trieste un lui e una lei vivono una storia che inizia dall’infanzia, quando una tartaruga assume il valore di un pegno d’amore, e procede attraverso tutta una serie di incontri casuali, spesso fulminei, talvolta senza che i due neanche si riconoscano. L’incontro che potrebbe essere decisivo avviene in sala operatoria: lui, operaio portuale, è il paziente; lei, laureata in medicina e amante del primario, è il chirurgo. Poi lui finisce in galera e lei, in parlatorio, inizia una partita a Scarabeo nella quale, componendo le parole sul tabellone, i due rivivono gli episodi della loro storia. L’impressione è che lui, di carattere chiuso e soprattutto più legato a un sogno che alla realtà, voglia sfuggire l’impegno di un rapporto a due. Ognuno è libero di decidere se, a partita conclusa, esistano le premesse perché se ne possa giocare un’altra.

Pasetto ha qualche felice intuizione: lo Scarabeo come sistema di comunicazione e di ricordo, ad esempio, con le parole che diventano momenti di vita. O il fatto che lui e lei compiano questo tragitto soltanto quando si trovano nell’ambiente «costretto» del parlatorio di un carcere. O ancora, qualche immagine che colpisce: il sacchetto portato dal vento, più che ad «American Beauty», fa pensare alla disperata ricerca di una ragione di vita. Ma il suo cinema povero, rigoroso nelle intenzioni, è fin troppo simbolico: in tutto fuorché nella vita vera. Lui e lei, Fabrizio Rongione e Barbora Bobulova, vivono in un mondo che dovrebbe essere il nostro ma non assomiglia tanto a quello che conosciamo per esperienza diretta. Vivono in una specie di tunnel abitato da due protagonisti e da tante comparse, di modo che non si riesce mai a focalizzare un punto dal quale poter partire per analizzare una storia che dovrebbe essere come tante e che invece assomiglia solo a se stessa.

Pasetto afferma di aver costruito i suoi personaggi ispirandosi al cinema di Kieslowski, ma è veramente difficile trovarne tracce concrete. Ce ne sono, invece, del cinema (povero, rigoroso, contemporaneo) dei fratelli Dardenne, con la continuità rappresentata da Fabrizio Rongione che è stato uno degli interpreti di «Rosetta». Anche qui, però, le cose cambiano: nei Dardenne non c’è alcunché di ineluttabile e, dopo sofferenze di ogni genere, la speranza emerge chiaramente come ultima (o prima) risorsa per continuare a vivere. Pasetto, invece, è evidentemente più pessimista: bisogna decidere se quel sacchetto che vola sul mare toccherà terra o se invece continuerà a volare.

Considerando che il titolo del film evoca una situazione, per la tartaruga, senza scampo, sembra più lecito abbracciare l’ipotesi della conclusione del volo. E in fondo, ci importa poco decidere se lei sceglierà di aspettarlo per tutto il periodo della detenzione o se tornerà a giocare a Scarabeo in parlatorio: sembra più lecito pensare che lui e lei continueranno a rincorrersi senza raggiungersi mai.

TARTARUGHE SUL DORSO di Stefano Pasetto. Con Barbora Boboulova, Fabrizio Rongione. ITALIA 2005; Drammatico; Colore