SUL LAGO TAHOE
DI FRANCESCO MININNI
Non è facile raccontare il dolore. Spesso si rischia la superficialità, ancora più spesso gli eccessi lacrimevoli, qualche volta persino l’umorismo involontario. Il regista messicano Fernando Eimbcke, al suo secondo lungometraggio, pur non evitando problemi di ritmo e di leziosità d’autore, ha avuto un’idea semplice e giusta: raccontare il dolore fingendo di occuparsi di qualcos’altro. «Sul lago Tahoe», così, diventa una sorta di manovra avvolgente che, dietro l’apparenza di una commedia bizzarra, ci conduce progressivamente alla scoperta del nucleo nascosto.
Juan va a sbattere con la macchina contro un palo. Non riuscendo a farla ripartire, va alla ricerca di un meccanico che lo possa aiutare. Don Heber sarebbe disposto, ma è vecchio e stanco e non ha il pezzo di ricambio. David, coetaneo di Juan, è disposto e ha il pezzo di ricambio. Ma, tra una cosa e l’altra, il tempo passa e il problema non si risolve. Ogni tanto Juan telefona a casa, ma parla soltanto con il fratello Joaquin perché la madre è per qualche motivo chiusa in bagno. Si percepisce in Juan una irrequietezza che, per quanto ne sappiamo, non ha motivi particolari. Dopo aver accettato un incarico da baby-sitter, aver visto con David un film di kung-fu e aver passato la notte con Lucia, Juan finalmente torna a casa. Sapremo così che suo padre è appena morto e che nessuno in casa era disposto ad accettare la cosa. Da qui si può ricominciare.
Il lago Tahoe si trova in California e nel film, pieno di praterie e strade polverose, c’è davvero poca acqua. Il titolo, cui una distribuzione fantasiosa ha aggiunto un «sul» che, oltre a non voler dire proprio niente, è anche fuorviante, fa riferimento a un adesivo applicato sul paraurti dell’auto di Juan, che a quanto pare il padre non aveva mai gradito. Dal lento, quasi meticoloso pedinamento di Juan e dalla cronaca, talvolta apparentemente al di sopra della cifra realistica, dei suoi incontri con personaggi naturalmente problematici, si finisce per trarre l’impressione di un girovagare nel tentativo di eludere la tristezza del momento. Ma anche la constatazione che, a modo loro e senza sapere niente, Don Heber, David e Lucia lo aiuteranno a superare la difficoltà di accettare l’inevitabile. Così «Sul lago Tahoe» supera l’apparenza della bizzarria e si trasforma in una storia di solitudine e solidarietà dall’impianto narrativo sicuramente originale e intrigante, realizzata con pochi mezzi e molte idee. Con un protagonista, Diego Cataño, molto bravo a rendere con semplicità un complesso percorso interiore senza cadere nell’errore di anticipare i tempi della rivelazione. Si può casomai imputare a Eimbcke una eccessiva dilatazione dei tempi del racconto, con inquadrature fisse e molto lunghe intercalate da pause di schermo nero, che fa molto regista anche troppo consapevole della propria dimensione d’autore. E che, tra l’altro, ripropone, non sappiamo quanto deliberatamente, il medesimo procedimento tecnico adottato da Jim Jarmusch nel suo «Stranger Than Paradise».
È un fatto, comunque, che Eimbcke si è occupato in modo tutt’altro che convenzionale di una tematica difficile e raramente affrontata in modo diretto (ci viene in mente soltanto «Il dolce domani» di Atom Egoyan) quale quella dell’elaborazione del dolore. Inserita, naturalmente, in un mondo che continua a girare e che, per ogni essere umano che lo abita, ha pronti problemi di differente tipologia ed entità ma che spesso si riconducono al minimo comune denominatore della solitudine e dei rapporti con gli altri. Tutte cose che di solito nelle grandi produzioni emergono per sbaglio oppure si tengono rigorosamente alla larga.
SUL LAGO TAHOE (Lake Tahoe) di Fernando Eimbcke. Con Diego Cataño, Hector Herrera, Daniela Valentine, Juan Carlos Lara II. MEX/USA/JAP 2008; Drammatico; Colore