SPEED RACER
DI FRANCESCO MININNI
La riflessione su «Speed Racer», al di là dell’eccellenza tecnica che potrebbe comunque risultare fine a se stessa, nasce da «Matrix». Là i Wachowski avevano, almeno inizialmente, l’astuzia di infarcire la storia di elementi apparentemente degni di nota che, evoluzioni acrobatiche a parte, non mancarono di scatenare esegeti, lettori simbolici, sociologi e quant’altro. Va da sé che, strada facendo, Neo e compagni perdevano di spessore lasciando il posto a meraviglie tecniche. Qui, invece, gli stessi Wachowski si disinteressano completamente di dare alla storia motivazioni diverse da quelle di suoni, colori, virtuosismi e prodigi dell’alta definizione. Come dire che oggi, rispetto a nove anni fa (non cento: nove), si è ulteriormente abbassata la soglia dell’interesse per qualcosa che vada oltre la mera apparenza. Cioè, se nel 1999 ci si poteva ancora disturbare a dare un’occhiata a qualche manuale di filosofia (sia pur molto condensato), nel 2008 si va direttamente alla consolle della sala comandi, si accendono tutte le luci e si butta via la chiave della biblioteca.
Di sicuro Emile Hirsch ha faticato meno a interpretare Speed Racer che il ragazzo di «Into the Wild», mentre Christina Ricci ha faticato più che altrove per la dieta ferrea cui sembra essersi sottoposta per entrare nei panni della fidanzata. Susan Sarandon e John Goodman (mamma e papà) saranno ricordati per altri film. E d’altronde «Speed Racer» non è concepito come banco di prova per interpreti di buona scuola, se è vero che alla fine è lo scimpanzè a fare la figura migliore (i caratteristi, la forza del cinema americano). Ci sembra insomma che tanto dispendio di denaro e creatività (che c’è, nessuno lo nega), siano assolutamente ingiustificati rispetto a un risultato finale che parla la lingua ormai universalmente diffusa del conformismo culturale. La confezione luccica, tutto il resto è noia.