SOTTO LE BOMBE
DI FRANCESCO MININNI
Non è il caso di invocare né il neorealismo né i reportage di guerra. «Sotto le bombe», del franco-libanese Philippe Aractingi, non ricerca né la drammatica contemporaneità del primo né l’oggettivazione dei secondi. Eppure questo piccolo film di produzione franco-britannico-libanese è necessario. Perché parla di un conflitto infinito, perché lo fa senza preoccuparsi di drammatizzare il racconto con episodi non sempre indispensabili, perché va dritto al cuore individuando nel binomio dolore-speranza il motore di buona parte delle nostre esistenze, perché non gioca con la guerra come fosse uno spettacolo, perché con pochi tocchi riesce a delineare due personaggi che non sanno di predeterminato e costruito a tavolino. Accompagnando Zeina e Tony nel viaggio da Dubai al sud del Libano alla ricerca del figlio di lei, tra rovine recenti e minacce di nuovi attacchi, tra l’ombra dell’esercito israeliano e la presenza inquietante dei guerrieri hezbollah, si può effettivamente sperimentare cosa possa significare l’incertezza del presente, la paura vera, il dolore autentico da una parte, e la volontà incrollabile, la necessità dell’amore, la forza vitale della speranza dall’altra. Aractingi non è esattamente un narratore nel senso convenzionale del termine. Lo potremmo piuttosto considerare un appassionato assemblatore di sentimenti da porgere al pubblico con semplicità, senza l’intermediazione dell’elemento intellettuale. Ecco perché «Sotto le bombe» è un film forse poco studiato e adattato, ma sicuramente di grande impatto emotivo in un modo che impedisce allo spettatore di restarsene al di fuori, indifferente.
Lo si capisce a più riprese nel corso del racconto, quando ci si rende conto che certe semplificazioni, certe rozzezze, certe apparenti banalità rientrano appieno nel quadro generale di una verità dettata dal cuore. Perché Aractingi non ha la pretesa di raccontare come si possa uscire da una situazione ormai consolidata, né di puntare l’indice contro responsabilità e reticenze: vuole soltanto affermare a chiare lettere che c’è una parte di mondo nella quale si continua a morire e a vivere e che il dolore e la speranza sono ormai diventati un binomio indivisibile. In questo senso la destinazione del film è assolutamente esemplare. Dopo aver vagato da una città all’altra, da un ospedale a un monastero, da un albergo al deserto, Zeina riceve la notizia che suo figlio Karim si trova in un monastero. Ma sul posto troverà un altro bambino, cui Karim ha donato il proprio giubbetto prima del bombardamento. E interrogato su dove si trovi Karim, il piccolo risponde: «Sotto le bombe». Quindi abbiamo da una parte il dolore di Zeina per la perdita del figlio, dall’altra la speranza rappresentata dal bambino sopravvissuto. Come dire: non è per niente facile andare avanti, ma si può con coraggio, buona volontà e la prospettiva di un domani (forse non migliore, ma pur sempre un domani).
Aractingi raggiunge il risultato che si era prefisso con il contributo indispensabile di due attori misurati e intensi. Nada Abou Farhat è Zeina, capace di passare da atteggiamenti «mondani» alla consapevolezza del dolore con grande espressività. Georges Khabbaz è Tony, il tassista che approfitta delle situazioni finchè il dramma della realtà lo costringe a far emergere tutto il buono della sua natura. E «Sotto le bombe» è un film semplice che ci parla di problemi molto complessi. Non è difficile: basta volerlo. Il che non vale solo per il cinema, ma anche per la vita vera.