Sopravvissuto
Dopo «Sopravvissuto» ci si sono presentate due domande sostanziali. La prima è: se le forze congiunte di Stati Uniti e Cina unite alla genialità di qualche singolo possono salvare un astronauta dato per morto e lasciato solo su Marte, perché le forze congiunte degli stessi e di altri paesi non possono risolvere alcuni urgenti problemi manifestatisi più vicino, proprio sulla Terra? La seconda è: perché Ridley Scott, che di certo non deve imparare a fare cinema, ha perso tanto tempo a inanellare strafalcioni storici con le sue manie di kolossal quando avrebbe potuto dedicarsi con maggior profitto a storie contemporanee (o future) che gli dessero la possibilità di mettere la propria maestria tecnica e narrativa a servizio di qualcosa di più concreto e costruttivo?
«Sopravvissuto», che trae ispirazione dal romanzo di Andy Weir e trasforma in cinema una materia che di partenza non lo sarebbe, è un’appassionata difesa dell’uomo, della sua forza di volontà, della sopravvivenza come potentissima forza motrice, della solidarietà, della possibilità di trasformare le frontiere della tecnica in strumento di comunicazione e in materia viva al di là della freddezza degli oggetti.
Naturalmente esiste anche il sottotesto che tutto ciò sia possibile agli americani proprio in quanto tali (tanto vero che la collaborazione cinese è appena accennata e rapidamente accantonata). Esiste. Ma non a livelli di guardia e in parte motivato dal fatto che a spasso nello spazio ci sono loro che ne hanno i mezzi. A loro, quindi, toccano gli onori e gli oneri.
La missione Ares 3 deve lasciare precipitosamente Marte per l’arrivo di una tempesta. Nelle operazioni di imbarco il botanico Mark Watney, colpito da un detrito, è dato per morto dal comandante Lewis. Ma Watney non è morto e, risvegliatosi, raggiunge la stazione d’emergenza, un ambiente sicuro che presenta l’unico problema di garantire una sopravvivenza di 31 giorni. Mentre sulla Terra la NASA si rende conto del fatto e studia freneticamente qualche operazione di soccorso, Watney mette a frutto tutte le proprie conoscenze tecniche e scientifiche per prolungare per tutto il tempo possibile la propria sopravvivenza. Così riesce a coltivare patate, a comunicare con la Terra, a raggiungere un cratere contenente ulteriori provviste. Ma sarebbe probabilmente destinato alla morte se i suoi compagni in viaggio verso la Terra, informati della cosa, non decidessero in contrasto con gli ordini della NASA di tornare a riprenderlo basandosi sui calcoli di un giovane scienziato.
L’inizio del film, con l’ennesimo allineamento di pianeti, fa capire quanto Ridley Scott guardi a «2001: Odissea nello spazio» di Kubrick come a una sorta di guida imprescindibile (e altrettanto dicasi per le frequenti camminate nei corridoi dell’astronave in assenza di gravità). Ma «Sopravvissuto» va tematicamente in tutt’altra direzione. Opposta, diremmo. Da una parte c’è l’uomo che perde se stesso nello spazio infinito, dall’altra l’uomo che mette all’opera il meglio di sé per ritrovare la strada di casa. Piuttosto, Scott sembra più indirizzato verso un citazionismo trasversale che evoca sia la Monument Valley di John Ford che i deserti di «Lawrence d’Arabia», sia l’assunto di «Salvate il soldato Ryan» che le vicissitudini di Robinson Crusoe e, naturalmente, di Ulisse. Il risultato è un film vivo e vibrante, raccontato con un magistero tecnico impeccabile, con più attenzione a tutta la solitudine evocata dal paesaggio (il deserto della Giordania) che alle attrattive spettacolari del 3D. Un kolossal, forse, ma sicuramente più intimista che pirotecnico. Un modo di affrontare l’argomento che lo trasforma in fantascienza autentica invece che in un prevedibile Luna Park. E anche Matt Damon, capace sia di escalation drammatiche che di notevole ironia, fa la sua figura. La domanda finale è: ma «Sopravvissuto» è un incentivo a continuare le prove del viaggio su Marte o un velato consiglio di lasciar perdere?