SOMEWHERE

DI FRANCESCO MININNI

Per l’ennesima volta Hollywood riflette su se stessa. Su come, cioè, ogni tanto avere ed essere arrivino a un conflitto duro e non superabile con la semplice diplomazia (ossia ignorando il problema), rendendo necessaria un’autentica, radicale scelta di vita. Quando diciamo per l’ennesima volta intendiamo riferirci al fatto che, con tutta la buona volontà, sceneggiatori e registi non riescono a distaccarsi da una maniera che sa molto di già visto e che nulla aggiunge a ciò che già conosciamo sull’argomento.

E dobbiamo dire che, nonostante il Leone d’Oro (a sorpresa) guadagnato a Venezia e nonostante alcune credenziali che inducevano a qualche speranza, anche Sofia Coppola è caduta nella trappola del dejà vu. «Somewhere», che procede verso una conclusione scontata accumulando dosi massicce di realismo narrativo, sembra più che altro una replica di certe tematiche già affrontate con altro successo in «Lost in Translation», con la differenza, che poteva essere sostanziale, della precisa ambientazione americana, che vuol dire Los Angeles, California.

Qui vive e lavora Johnny Marco, una delle star di maggiore successo del momento. La vita di Johnny assomiglia probabilmente (forse anche in peggio) a quella di molti colleghi: orari impossibili, sonno arretrato, lapdance a domicilio, donne da scegliere senza alcun problema, avvenimenti mondani che vanno dalle anteprime agli incontri stampa ai gridolini del pubblico, una rombante Ferrari sulla quale sfrecciare in città e fuori. Da tutto questo Johnny dovrebbe trarre l’errata impressione di essere un uomo realizzato e felice. E invece Johnny sembra un uomo tanto poco consapevole di quel che fa da risultare alla fine profondamente annoiato. Nella prospettiva di una trasferta a Milano per la consegna di un Telegatto, gli capita però di doversi occupare per più tempo di un semplice weekend della figlia Cleo. A quanto pare questa overdose di responsabilità lo porterà ad interrogarsi, a rispondersi e a prendere una decisione.

L’ansia di realismo di Sofia Coppola si concreta in una strana ricerca, simile a certe pratiche di Kiarostami, di allungare i tempi per sfiorare molto da vicino il concetto di tempo reale. Quando le ballerine, nella camera di un albergo storico come lo Chateau Marmont (l’hotel delle stelle, nel quale morì John Belushi), fanno il loro numero di lapdance, lo fanno per intero e per due volte. Quando Cleo è osservata da Johnny durante un’esibizione di pattinaggio sul ghiaccio, tutta l’esibizione ci è mostrata.

Insomma, qualunque cosa Johnny faccia o a cui assista, possiamo star certi che non mancherà neanche una virgola. Se questo da una parte contribuisce a concretizzare l’idea della noia nella quale vive la star, dall’altra non può fare a meno di estenderla al pubblico che, invece di essere coinvolto nel meccanismo, si trova ad osservarlo dal di fuori con un comprensibile desiderio di maggior sintesi. D’altronde, il fatto che Johnny rifletta sulla propria esistenza a seguito della vicinanza prolungata della figlia ci sembra più un dono di sceneggiatura che qualcosa che emerge lampante dall’evoluzione del racconto. Ci è insomma difficile credere che la decisione di Johnny di abbandonare la Ferrari e di andarsene a piedi sia qualcosa di più di una conclusione pilotata a beneficio di un pubblico intellettualmente ben disposto.

Accade dunque che il realismo di Sofia Coppola sia un artificio tecnico che non trova riscontro nel realismo esistenziale e psicologico, quello che contava veramente. Di certo Stephen Dorff ha la faccia giusta per fare il divo che sopravvive a se stesso e persino Elle Fanning, la sorella minore di Dakota, ha una sua ragion d’essere come ragazzina sballottata dalla vita ma capace di pensare e di costringere anche gli altri a farlo. Bill Murray a Tokyo, però, aveva tutt’altro spessore. Senza contare che la riproposta di un argomento simile, cioè la perdita di sé e il disperato bisogno di ritrovarsi, non depone a favore della vitalità creativa di un’autrice dalla quale francamente ci saremmo aspettati di più.

Quanto al Leone d’Oro, che vi dobbiamo dire? L’unica cosa che ci viene in mente è che il presidente della giuria, Quentin Tarantino, è un ex di Sofia.

SOMEWHERE (Id.) di Sofia Coppola. Con Stephen Dorff, Elle Fanning, Chris Pontius, Caitlin Keats