Solo gli amanti sopravvivono

Per forza di cose il primo sarà isolato e solitario, il secondo vivrà in branco senza segni distintivi. A questo punto andiamo oltre: il vivente è un vampiro, quindi un non morto che ha bisogno di sangue per sopravvivere; il morto, cioè la stragrande maggioranza, è uno zombie, quindi un essere senz’anima. Ma non basta: il vampiro è talmente isolato da essere quasi unico, gli zombie siamo noi, l’umanità.
Non si può certo dire che Jim Jarmusch abbia scelto la via dritta per le sue metafore. Soprattutto ha scelto dei simboli che, inevitabilmente, portano con sé numerose ambiguità. «Solo gli amanti sopravvivono» non è né un film di vampiri né una risposta alle ragazzate di «Twilight», ma neppure una ideale continuazione delle tematiche borderline di Jarmusch, dei suoi personaggi qualunque alle prese con la vita. Dell’autore ritroviamo il viaggio notturno, la particolare ricerca musicale (affidata a Jozef Van Wissem, compositore e liutista olandese con propensione per le sonorità underground), il particolare umorismo sarcastico che sparge a piene mani nei confronti di Los Angeles (quindi di Hollywood) e la voglia immutata di cantare fuori dal coro.
Adam vive a Detroit, colleziona chitarre e dischi d’epoca, compone musica di nicchia, sfugge la luce del giorno, si nutre di sangue da laboratorio e rifiuta il contatto con gli zombie, anche nel caso in cui fossero suoi fan. Eve vive a Tangeri, dove frequenta Christopher Marlowe (che considera Shakespeare uno zombie insopportabile) e si circonda di arte e libri. I vampiri non si nutrono più direttamente dagli esseri umani, per timore che il sangue contaminato contagi anche loro. Ma con Adam dovrà prendere atto che le risorse si stanno esaurendo.
«Solo gli amanti sopravvivono» è una prova lampante di come a buone intenzioni possa non corrispondere un esito pieno e convincente. L’ansia simbolica di Jarmusch elimina ogni possibilità empatica di partecipazione e coinvolgimento. Anche se si capisce, magari un po’ faticosamente, l’obiettivo dell’autore, lo si percepisce comunque come qualcosa di freddo e distante, che soprattutto non riesce a trasmettere linfa vitale al film che rimane molto simile a un corpo inerte con molte note a margine. Il ritmo è quasi insostenibile nella sua lentezza, le metafore sono attraenti sulla carta ma alla prova dei fatti non prendono vita: accade insomma che l’interesse di Jarmusch per la tesi lasci in secondo piano quello per il cinema. Se è evidente che la sua passione per la cultura a tutti i livelli è sincera e che la sua preoccupazione per l’omologazione è reale, bisogna dire che questa volta l’autore non è riuscito a trasformare tutto questo in un film autentico, con la prima conseguenza dell’indebolimento esponenziale della forza tematica penalizzata da una rappresentazione statica e ripetitiva.