Solo Dio perdona
«Solo Dio perdona» è, una volta tanto, anche il titolo originale del film di Nicolas Winding Refn, regista danese conosciuto per durissime rappresentazioni di violenza quali «Bronson» e «Drive». Il che ci permette di partire da una premessa cristiana. «La vendetta è mia» dice il Signore. Non ha mai detto «Il perdono è mio». Anzi, nel Padre Nostro si recita «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Dunque, il perdono dovrebbe essere un buon esercizio quotidiano (o almeno costante) dell’essere umano nei confronti del prossimo, tenendo ben presente che si tratta di un moto interiore che non va assolutamente confuso con l’oblio. Perdonare e dimenticare, insomma, sono due cose completamente diverse.
Detto questo, non resta che concludere che il titolo del film ci fa capire, anche prima di entrare in sala, che Winding Refn parlerà di molte cose ma che non ci sarà da attendersi alcun esercizio di misericordia. Poco male, si potrebbe dire. C’è tanta violenza nel mondo che la sua rappresentazione potrebbe addirittura indurre a una certa assuefazione. Ma il caso di «Solo Dio perdona» è un tantino diverso dal solito.
A Bangkok, in Thailandia, i fratelli Julian e Billy gestiscono un club di boxe thailandese. Billy, però, è destinato a una breve carriera: avendo violentato e ucciso una sedicenne, è individuato dal poliziotto in pensione Chang e lasciato alla vendetta paterna. A questo punto entra in scena Jenna, madre di Julian e Billy, trafficante di droga, gelida come un ghiacciolo e decisionista. La donna pretende vendetta basandosi sul ragionamento che per fare ciò che ha fatto Billy «avrà avuto le sue ragioni». Da qui in avanti prende il via la carneficina da cui sembra non debba salvarsi proprio nessuno. A guidare le operazioni, sempre, è Chang, che sa quando giocare con le vittime e quando invece andare direttamente al bersaglio. Così Bangkok assume i connotati di un inferno in terra senza che sia prevista la possibilità di alcun paradiso.
Per meglio comprendere la filosofia di vita e di cinema di Winding Refn, danese (che non è un elemento da trascurare), ci vengono in aiuto due sue dichiarazioni. Entrambe riguardano le reazioni del pubblico. La prima: «Io faccio film in cui gli spettatori alla fine devono dire “e che cavolo!”». La seconda: «Il pubblico deve avere l’impressione di trovarsi davanti qualcuno che senza tanti complimenti gli dice “Io la penso così, e tu?”». Sulla prima dichiarazione non possiamo che convenire: la quantità di violenza, anche molto pesante, e la rappresentazione fredda che non lascia alcun appiglio reale possono senz’altro suscitare una reazione di quel genere. Sulla seconda, però, ci sorge qualche dubbio. In particolare per quanto riguarda il modo di pensarla su qualcosa.
«Solo Dio perdona» propone un mondo interamente notturno, privo di punti di riferimento che non siano il denaro e la morte, attraversato da persone stilizzate che non mostrano di avere sentimenti e lanciato in una folle corsa verso l’autodistruzione. Le luci, di preferenza rosse e blu, rendono il tutto irreale e luciferino. Jenna, la madre, lascia trasparire un rapporto con i figli che va ben oltre i limiti dell’amor materno. Chang, poliziotto in pensione, è una sorta di angelo della vendetta al cui confronto impallidirebbe persino l’ispettore Callaghan. In quella che si può considerare la scena più violenta del film, sullo sfondo è ben visibile una riproduzione fotografica del David di Michelangelo, quasi a voler contrapporre i differenti vertici cui può arrivare l’essere umano: quello dell’arte (cioè del bello) e quello della violenza senza limiti.