Soli nel deserto: «EL ALAMEIN»

DI FRANCESCO MININNIÈ difficile, oggi, parlare di El Alamein. Soprattutto perché, nonostante l’episodio non sia dei più frequentati a livello cinematografico, bisogna comunque fare i conti con una gran quantità di film bellici che, anche se ambientati altrove, costituiscono un bagaglio pesante. In «El Alamein / La linea del fuoco» Enzo Monteleone, eliminata saggiamente ogni retorica miltaresca, ha scelto di raccontare la verità: una storia di gente comune che, per lunghi periodi del 1942, si trovò in una situazione terribilmente simile a quella simbolica delineata da Dino Buzzati ne «Il deserto dei tartari», ovverosia l’attesa. Della morte, nel migliore dei casi, ma più spesso del niente. Perché la realtà storicamente provata è che quelle truppe distaccate nel deserto africano furono abbandonate e dimenticate: strategicamente, forse, ma di certo completamente. La differenza tra il deserto dei tartari e quello africano, però, è che in Africa gli inglesi c’erano e si facevano sentire. Il film diventa così una triste requisitoria contro un’organizzazione inesistente, mezzi precari, miopia strategica e vite a costo zero. Il coraggio, le perplessità, le speranze, l’attesa delle truppe, invece, sono rappresentati con tutto l’affetto possibile, perché emerga il ritratto di persone che, anche se sulla lapide sono identificate come «ignoto», hanno pagato il loro tributo alla storia senza averne in cambio nulla, neanche la memoria.

Il rischio di un’operazione come «El Alamein» è interamente legata allo stile dell’autore. Monteleone, evidentemente forte di esperienze teatrali, punta tutto sulle facce dei soldati per raccontare una lunga agonia dai toni a tratti quasi surreali. Ma così facendo, accantonando a priori ogni supporto di azione bellica e allungando inevitabilmente i tempi del racconto, va incontro al rischio della lentezza dovuta a silenzi e ripetizioni. E non bisogna trascurare il fatto che, pur adottando un tipo di racconto antitradizionale teoricamente giusto, Monteleone non riesce ad evitare il luogo comune in certi rapporti tra i personaggi (lo studente universitario e il popolano, l’ufficiale e il sottoposto) e nella vita di trincea. Da una parte si torna con la memoria ai classici di Milestone («All’Ovest niente di nuovo») e Kubrick («Orizzonti di gloria»). Dall’altra non si può non pensare a un altro contingente dimenticato, i soldati di «Mediterraneo» di Salvatores, che per loro fortuna si trovarono in condizioni completamente diverse.

Tutto questo per dire che «El Alamein» è tutt’altro che un film sbagliato, soprattutto nella corretta definizione dei caratteri dei diversi personaggi e in qualche episodio (l’arrivo del camion con il cavallo di Mussolini, la caduta di una pioggia liberatoria) francamente toccante: ma non è comunque quel film-verità sconvolgente che qualcuno poteva augurarsi. Tra gli attori si segnalano Paolo Briguglia, Emilio Solfrizzi e Pierfrancesco Favino, mentre le apparizioni fulminee di Silvio Orlando e Roberto Citran (un generale e un colonnello) diventano un involontario tributo a differenti retoriche sulla figura e sul ruolo dell’ufficiale.

E mentre verrebbe da rattristarsi e indignarsi per un inutile massacro, la domanda di fondo resta un’altra, molto più impegnativa: esistono massacri utili?

EL ALAMEIN / LA LINEA DEL FUOCO di Enzo Monteleone. Con Paolo Briguglia, Pierfrancesco Favino, Emilio Solfrizzi