SLEUTH / GLI INSOSPETTABILI

DI FRANCESCO MININNI

«Gli insospettabili» fu un film memorabile per più di un motivo. Innanzitutto è stata l’opera ultima di un grande del cinema, Joseph L. Mankiewicz. In secondo luogo trasforma in cinema un testo teatrale di Anthony Shaffer senza che si avverta per un attimo l’ombra del palcoscenico. In terzo luogo offre a un mostro sacro, Laurence Olivier, e a un motivatissimo Michael Caine un’occasione unica per misurarsi testa a testa senza alcuna interferenza. Infine è un manifesto di gusto, astuzia compositiva, prestidigitazione e altri sporchi trucchi che lo rendono un giocattolo dal funzionamento perfetto. Era il 1972. A trentacinque anni di distanza ci sono le premesse per un remake capace di incuriosire: Harold Pinter (premio Nobel, tanto per gradire) incaricato di riscrivere il testo; di nuovo Michael Caine, ma nel ruolo che fu di Olivier; a fronteggiarlo Jude Law, algido e ambiguo; alla regia Kenneth Branagh, fresco reduce da «Il flauto magico» e sempre più a suo agio con riduzioni da opere teatrali. La somma di questi talenti dà un risultato da cui si dovrebbe concludere che ognuno abbia lavorato per conto proprio.

In realtà, alla base dell’operazione, sta lo stesso errore che ha minato «Diabolique»: l’insensatezza di rifare un film che basava molto del suo appeal su suspense e sorprese senza cambiare niente di sostanziale. Così lo scrittore di romanzi polizieschi Andrew riceve nella sua villa tecnologica e fredda il parrucchiere e attore Milo, amante della moglie, che viene a chiedere la benevola concessione del divorzio. Ma Andrew sa manipolare la gente e convince Milo a un furto con scasso che dovrebbe fare ricchi sia il ladro che il derubato. Poi cominciano le sorprese.

Harold Pinter dovrebbe aver aggiunto ai dialoghi, e quindi alla definizione dei caratteri, una buona dose di umorismo caustico. Ma contemporaneamente ha anche privato Andrew e Milo della loro dimensione fondamentalmente umana, trasformandoli in due gelidi meccanismi al servizio della storia. Dei due protagonisti, Michael Caine è sicuramente quello che ne esce meglio, non foss’altro per la sua origine anglosassone. Jude Law, invece, si adegua perfettamente alle atmosfere glaciali del film oscillando tra attonito stupore e movenze effeminate (una novità di cui non si sentiva la necessità). Branagh, da parte sua, sceglie di giocarsi la partita sul piano della tecnologia: la villa di Andrew è dotata di un sofisticato impianto di sicurezza che prevede una serie di telecamere all’interno e all’esterno, con relativi monitor per il controllo delle immagini. Questo crea una distanza incolmabile tra la storia narrata e le sensazioni che dovrebbe suscitare, rendendo praticamente la casa più protagonista dei due personaggi. «Sleuth» diventa così una esibizione di talenti che non appassiona né coinvolge. Quando Caine e Law si fronteggiano faccia a faccia, la qual cosa accade più volte nel film, si ha sempre l’impressione di un’operazione tecnica, mai umana. La differenza con l’originale sta tutta qui: Mankiewicz era abituato a lavorare sui personaggi con testa e cuore, mentre Branagh si dimostra molto più cerebrale e sicuramente narcisista per sé e per gli altri, senza contare il fatto che questa volta sembra tenere più alle architetture degli ambienti che a quelle degli animi. Data la sua passione per Shakespeare, era lecito attendersi di più.

SLEUTH / GLI INSOSPETTABILI (Sleuth) di Kenneth Branagh. Con Michael Caine, Jude Law. GB/USA 2007; Thriller; Colore