SI PUÒ FARE

DI FRANCESCO MININNI

Il bello della commedia italiana è che, quando vuole, riesce ad occuparsi di problemi seri senza cadere nella barzelletta, nello stereotipo o nel banale. Magari ci fa qualche capatina, ma sempre per rientrare sul binario principale. Che, nel caso di «Si può fare» di Giulio Manfredonia, è un serio messaggio di speranza sulle possibilità di integrazione dei malati mentali senza vane utopie o scenari fantascientifici. Il tutto legato a due elementi di base: la chiusura dei manicomi a seguito dell’approvazione della legge Basaglia (1978) e la destinazione a direttore di una cooperativa di matti di un ex-sindacalista in disgrazia. Manfredonia, che non è un nome di punta del cinema italiano, non è neanche un qualunque ultimo arrivato, avendo alle spalle esperienza d’assistente e due lungometraggi, «Se fossi in te» con Gioele Dix e È già ieri» con Antonio Albanese, che hanno comunque avuto una distribuzione regolare. Nell’affrontare quella che abitualmente si usa definire «una storia vera», ha pensato bene di appoggiarsi alla struttura della commedia, probabilmente per due motivi: per avere un’intelaiatura solida sulla quale poter lavorare senza scivolare nel dramma a tinte forti e, naturalmente, perché il suo film potesse esser visto da un pubblico più vasto di quello d’elite delle sale d’essai. Che poi in «Si può fare» si trovino tracce di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» di Forman o di «Uneasy Riders» di Sinapi, è nell’ordine naturale delle cose: affrontando certi argomenti non si può prescindere da chi li abbia già affrontati con risultati difficili da ignorare. Di certo «Si può fare», con difetti di costruzione e tonalità, riconcilia con il cinema d’impegno che non rinuncia allo spettacolo.

All’inizio degli anni Ottanta, Nello, imprenditore e sindacalista, è considerato troppo avanti nel primo ruolo e troppo indietro nel secondo. Ciò lo porta a una sostanziale emarginazione e all’assegnazione di un incarico-ombra: sarà il direttore di una cooperativa formata esclusivamente da malati mentali trovatisi in balìa di se stessi dopo l’applicazione della legge 180. Il punto è che Nello, contravvenendo alle indicazioni del professore che li ha in cura, prende i matti per persone normali e, applicando alla lettera le regole della cooperativa, decide insieme a loro di inserirsi nel libero mercato. Nasce così la cooperativa 180, che si occupa di parquet e legnami. E imprevedibilmente, grazie all’estro e alla creatività di qualche posatore, l’attività riscuote un tale successo da arrivare addirittura alla pavimentazione della metropolitana di Parigi. I malati mentali, tuttavia, per quanti miglioramenti mostrino restano sempre malati. E a un certo punto dovranno confrontarsi con una realtà che è disposta ad accettarli come brillanti artigiani, ma li rifiuta comunque in quanto pazzi.

Un film molto difficile da tenere in equilibrio tra umorismo e dramma, con qualche eccesso di complicità col pubblico nel primo caso e qualche caduta dovuta al brusco cambiamento di tono nel secondo. Ma l’entusiasmo, la speranza, le proposte, la voglia di aprirsi a tentativi di integrazione (ben controllati, s’intende) sono tali da far passare in second’ordine quel po’ di dura realtà che, alla fine, manca. Nello sposerà fino in fondo la causa dei «suoi» matti, riuscendo anche a salvare una storia d’amore che rischiava di perdersi nell’egoismo, e i matti non sono più tali: sono soltanto i nostri fratelli più piccoli. Claudio Bisio dimostra che, come già intravisto ne «La cura del gorilla», le doti di interprete non gli mancano. E non gli manca neanche l’umiltà di lasciarsi rubare la scena da attori come Bosca e Calcagno, tanto bravi da sembrare matti sul serio. E alla fine, come diceva Jack Nicholson ne «Il re dei giardini di Marvin», «in questo mondo di pazzi come si fa a capire chi è matto veramente?».

SI PUÒ FARE di Giulio Manfredonia. Con Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Giorgio Colangeli, Andrea Bosca, Giovanni Calcagno. ITALIA 2008; Commedia; Colore