«SEVEN SWORDS»

DI FRANCESCO MININNITsui Hark, prima di John Woo e secondo qualcuno anche di più, incarna il cinema di Hong Kong. Che non è il cinema colto e intellettuale di Wong Kar-Wai, ma quello che meglio rappresenta la cultura della strada, delle tradizioni epiche, del frastuono di un mercato o dell’intrico dei vicoli. Hark ha attraversato molti generi cinematografici, ha lavorato con Van Damme e Jet Li, talvolta ha riscritto le regole del film d’azione e, soprattutto, è rimasto sempre fedele alla terra d’origine. Con «Seven Swords», che ha inaugurato fuori concorso la mostra di Venezia, cavalca l’onda del rinnovato interesse per il wuxiapian (cinema d’azione su basi storiche) aperto da Ang Lee con «La tigre e il dragone» e portato ai massimi livelli da Zhang Yimou con «Hero». La circostanza torna utile per capire le differenze nei punti di vista e nello stile, portandoci a concludere che «Seven Swords», nonostante le premesse, è soltanto un kolossal.

Tratto dal romanzo di Liang Yu Sheng e ambientato nel XVII secolo all’epoca della dinastia Ching, il film narra la vicenda di sette coraggiosi che prendono le spade per difendere un villaggio dall’attacco dell’esercito imperiale guidato dal malvagio generale Fuoco-Vento. Alla base di tutto sta l’editto imperiale che proibisce l’uso e la diffusione delle arti marziali. A differenza dei samurai di Kurosawa, le sette spade compiranno la missione senza alcuna perdita.

Una volta apprezzato il lavoro fotografico e musicale presente nel film, bisogna dire che appare chiaro come Tsui Hark sia uno specialista in film d’azione ad alto tasso di adrenalina. «Seven Swords», infatti, difetta proprio nei raccordi che, per forza di cose, devono intercalare i numerosi duelli e battaglie che rappresentano il clou del film. Ora, può darsi che i problemi siano emersi dal fatto di dover ridurre a due ore e mezza un primo montaggio di quattro ore, che non è mai un buon sistema per dare a un film un ritmo omogeneo. Ma può anche darsi che Hark, alle prese con la storia patria e le radici della cultura popolare (identificata evidentemente con le arti marziali), per una volta si sia preso troppo sul serio. Lo si nota anche nelle scene d’azione quando, invece di allargare per permettere una visione d’insieme, il regista sta addosso ai personaggi rendendo impossibile capire la meccanica del duello. Come Kitano in «Zatoichi», anche Hark in «Seven Swords» rende omaggio a Kurosawa e a «I sette samurai». Nessuno dei due ha considerato, però, che a sua volta Kurosawa rendeva omaggio ad alcuni amati maestri occidentali e che «I sette samurai» era già una contaminazione culturale. Tornando in Oriente, restano soltanto la feroce ironia di Kitano e la magniloquenza di Hark. È bella l’idea di sette cavalieri che combattono in difesa delle arti marziali. L’autore, però, avrebbe dovuto lavorare come se in ballo ci fosse una valigia di pietre preziose, non una pagina di storia nazionale.

SEVEN SWORDS (Id.) di Tsui Hark. Con D. Yen, L. Lai, C. Yeung, Lau Kar-Leung