Selfie

Di fronte a Selfie di Agostino Ferrente si potrebbe pensare, ancora prima di vederlo, che al di là di ogni buona intenzione, di ogni esperimento linguistico, di ogni innovazione tecnica, di essere destinati a dover subire la solita Napoli, il solito degrado, i soliti ragazzi di strada, in un certo senso la solita Gomorra. Tutto ciò, appunto, ancora prima di vederlo. Se tali risultanze dovessero permanere anche dopo averlo visto, vorrebbe dire che pregiudizi, sovrastrutture, preconcetti e idee fisse avrebbero la meglio su tutto.

Perché a tutti gli effetti Selfie, che pure non evita di parlare di criminalità, violenza e Napoli periferica, è per propria scelta l’esatto contrario di Gomorra. Dove Saviano e Garrone mettono in scena una sorta di fatalismo criminale da cui non sembra esistere via d’uscita, Ferrente sceglie di proposito due sedicenni del quartiere Traiano che ambiscono a un lavoro onesto e che, anche di fronte a lancinanti ingiustizie, non sembrano mai cambiare idea. Così Alessandro Antonelli e Pietro Orlando, che anche somaticamente possono ricordare alcuni ragazzi di quei film e che devono condurci a una sorta di ricostruzione della morte di Vincenzo Bifolco, ucciso da un carabiniere che l’aveva scambiato per un ricercato, non sono soltanto i protagonisti di Selfie: ne sono anche gli autori. Ferrente, regista del film a tutti gli effetti, ha voluto e ottenuto che fossero loro stessi a riprendersi con un iPhone intervenendo soltanto per evitare che l’entusiasmo li portasse a nascondersi per mostrare di sé soltanto la parte che volevano esporre al giudizio degli altri.

È evidente che Selfie, forse impropriamente definito documentario dove la classificazione più giusta dovrebbe essere film-documento, è un film senza storia. Alessandro e Pietro raccontano se stessi, le famiglie, gli amici, i luoghi, i sogni e le aspirazioni senza mai uscire di campo, guardando continuamente in macchina e, quando è il caso, correggendosi. Naturalmente la Napoli mostrata è quella di sempre, ma ha di diverso uno sguardo pulito, sincero, privo di alcuna mediazione spettacolare o drammatica. E la stessa cosa vale per le persone che attraversano la scena: sono appunto persone, non personaggi. Alessandro fa il barista, Pietro vorrebbe fare il parrucchiere. Qui finiscono i sogni: roba normale, alla portata di tutti in condizioni ordinarie. Ma il quartiere Traiano (e ce ne sono tanti nel mondo) è quello dove un carabiniere ha ucciso Vincenzo Bifolco e poi è stato assolto. Un posto dove niente è ordinario e dove si fa prima a imboccare la strada sbagliata per fare i soldi e farli più presto. Ma, come dice Pietro, nel crimine bisogna guardarsi da due pericoli: le guardie e la concorrenza. E se le guardie ti arrestano, vai in galera. Ma se arriva prima la concorrenza, sei morto.

Non diremmo che Agostino Ferrente abbia adottato un modello di cinema didattico, che avrebbe avuto i suoi schemi e i suoi schematismi. Ha piuttosto scelto un racconto in libertà che ha evidentemente qualche caratteristica didattica, ma niente che lo renda prevedibile o incasellato. Pertanto ha operato una scelta coraggiosa e fuori schema: trasformare Alessandro e Pietro in registi di se stessi, dimostrando una sensibilità e un rispetto che eliminano alla radice ogni confezione, ogni forma preesistente, ogni racconto convenzionale. Il risultato, proprio in questo senso, è notevole: Selfie (che evidentemente è un titolo che contiene anche una punta d’ironia) ha da offrire scorci inediti, facce senza trucco, una realtà che pesa molto ma che non dà comunque l’idea del labirinto senza uscita. E Alessandro e Pietro, anche nei loro atteggiamenti ora guasconi ora esistenziali ora autocritici, sono proprio Alessandro e Pietro. A mantenerli nei confini della verità ci ha pensato Ferrente, che orchestra il tutto anche senza stare dietro la macchina da presa. Che, lo ricordiamo, non esiste: questa volta si tratta di un iPhone.

SELFIE di Agostino Ferrente. Con Alessandro Antonelli, Pietro Orlando. FRANCIA/ITALIA 2019; Documentario; Colore.