Se la strada potesse parlare

Harlem, negli anni Settanta, era un quartiere più esplosivo di oggi (anche se sappiamo bene come i problemi siano tutt’altro che risolti). La morte violenta di Martin Luther King, Malcolm X e persino di Robert Kennedy aveva trasformato il quartiere nero in una polveriera. Eppure Barry Jenkins, premiato con l’Oscar per Moonlight e a nostro avviso sopravvalutato, traducendo in film il romanzo di James Baldwin If Beale Street Could Talk, quindi un testo fortemente impregnato di quella polemica e di quella rabbia, evita la diretta rappresentazione di una lotta di classe e scommette tutto su una storia d’amore.

Certo, l’amore ai tempi della cattiveria, quindi un amore del quale non conosceremo l’evoluzione fuori del carcere. E tuttavia è questo il suo obiettivo: l’amore nonostante tutto. In fondo la chiave di lettura del film, Se la strada potesse parlare, sta nel dialogo tra i due innamorati, Fonny e Tish, e l’ebreo Levy che sta per affittare loro la casa in cui vivranno. «Perché è tutto così semplice?», chiede Tish dopo tante esperienze di frustrazione e rifiuto. E Levy, dopo aver specificato: «Sono soltanto figlio di mia madre» (cioè riferimento a un’educazione, a una disposizione d’animo, a un modo di essere non legato né a razza né a religione ma soltanto al rapporto con l’altro, chiunque egli sia), aggiunge «Perché mi piace vedere due persone che si amano». Ecco il punto che Jenkins teneva a porre al centro del suo film: due persone che si amano. E questo è un messaggio umano, sociale, politico di una forza addirittura devastante. In un certo senso (e non direttamente) è la spiegazione del Nuovo Testamento a chi si ostina a rimanere ancorato a certe durezze dell’Antico. Fonny e Tish aspettano un figlio, non sono sposati, non parlano mai di Dio, ma si amano e tanto basta.

L’amore dei due ragazzi, benedetto dalla famiglia di Tish e ostacolato dalla madre e dalle sorelle di Fonny (ma non dal padre), procederebbe come tanti amori di povera gente se non fosse per un poliziotto razzista che organizza le cose in modo che Fonny sia accusato di una violenza sessuale che non ha commesso. La vittima, una portoricana dall’equilibrio psichico faticoso, si è trincerata nel silenzio ed è addirittura sparita da New York. L’avvocato incaricato della difesa non nasconde le difficoltà del compito. La madre di Tish va addirittura a Portorico per parlare con la donna, senza ottenere niente. E niente ci verrà detto né del processo, né dell’eventuale condanna, né del dopo. Il bambino è nato e fa visita a Fonny in carcere. Fonny e Tish si amano ancora.

Sarebbe stata necessaria da parte di Jenkins una direttrice più rigorosa sulla tematica dell’amore, che talvolta è lasciato all’intuito dello spettatore. Il fatto è che le esigenze del racconto lo hanno praticamente costretto a soffermarsi su alcuni particolari chiarificatori senza i quali ci saremmo posti troppi perché senza risposta. È un fatto, però, che il dettaglio del poliziotto razzista ghignante e freddo stona al punto da sembrare parte di un altro film (per esempio Detroit di Kathryn Bigelow, dove sarebbe stato al suo posto) e rischia di spostare il centro dell’attenzione fino al momento in cui esce di scena per non più rientrarvi.

Se la strada potesse parlare funziona bene finché cerca il conforto delle belle immagini come contrappunto estetico alle bruttezze narrate. Poi torna ad essere un film di denuncia come ce ne sono tanti e come Jenkins non voleva che fosse. Lo aiutano gli attori: KiKi Lane (una Tish prima smarrita ma via via sempre più forte e consapevole), Stephan James (Fonny, più soggetto a scatti d’ira e a comportamenti di cui poi si potrebbe pentire) e soprattutto Regina King (la madre di Tish, che capisce, elabora, agisce e tiene dritta la barra della famiglia). In ogni caso, un film quasi all black e quasi diverso dal solito.

SE LA STRADA POTESSE PARLARE (If Beale Street Could Talk) di Barry Jenkins. Con KiKi Lane, Stephan James, Regina King, Michael Beach. USA 2018; Drammatico; Colore.