Sacro Gra

È proprio questa la caratteristica principale del film di Rosi, che invece di lasciar passare persone e cose davanti all’obiettivo della sua macchina da presa è andato a cercarle, le ha in un certo senso scritturate e invitate a interpretare se stesse. Quindi, da un punto di vista formale, non sarebbe corretto definire «Sacro GRA» un documentario: sembra più appropriato un ossimoro del genere «finzione vera».

Tutto questo per farvi capire quale possa essere la difficoltà dello spettatore nell’affrontare un film come questo, girato rigorosamente sui luoghi dell’azione, ovverosia sul grande raccordo anulare di Roma (da cui l’acronimo GRA), ma che non dà mai l’impressione di avere alle spalle un documentarista «neutrale», quanto piuttosto un osservatore coinvolto e interessato.

Una volta superato questo primo ostacolo, ci si trova di fronte al secondo: un film senza storia, nel quale ognuno dei personaggi/persone racconta la propria senza che vi sia apparentemente un filo conduttore al di là dell’unità di luogo. Poi, unità di luogo è un concetto relativo se consideriamo che il raccordo misura oltre 68 km e ha 42 svincoli, gira tutto intorno a Roma ed è percorso quotidianamente da 160.000 veicoli per un totale annuale di circa 58 milioni. Come dire, facendo riferimento a una canzone di Claudio Baglioni, quanta vita che è passata e quanta che ne passerà. A Rosi, però, non interessa tanto il traffico e neanche Roma che in un certo senso rimane sullo sfondo. Gli interessano alcune persone che vivono lungo il raccordo e che rappresentano i testimoni del grande protagonista di «Sacro GRA»: lo scorrere del tempo.Cesare l’anguillaro vive pescando (anguille, appunto). Paolo, nobile piemontese decaduto, e sua figlia Amelia vivono in un condominio accanto a un dj indiano. Roberto il barelliere vive con la madre malata di alzheimer. Francesco il botanico è ossessionato dai parassiti delle palme e fa continui rilievi nel tentativo di impedirne il proliferare. Filippo e Xsenia, il principe e la consorte, affittano il castello a troupe che realizzano fotoromanzi. Le prostitute transessuali rivendicano un minimo di dignità negando di svolgere la loro attività «tutte nude nella macchina».

Ognuno ha la sua storia da raccontare e ognuno mantiene la propria identità, la propria dignità, indipendentemente dal ruolo che la società moderna li obbliga a interpretare. E ogni tanto qualcuno cerca di opporsi, come il botanico che organizza una sorta di disinfestazione con mezzi propri. Cioè a dire, nel suo piccolo nessuno si arrende. Pazienza se il tempo passa e la vita continua: l’ingranaggio è fatto di tante piccole ruote dentate che devono continuare a girare.

Si può capire come la scelta dell’assegnazione del premio veneziano sia stata guidata e fortemente voluta dal presidente della giuria Bernardo Bertolucci, che nel film di Rosi ha ritrovato certi luoghi e certe facce che non possono non evocare il primo Pasolini. Ma anche, nel flusso interminabile delle automobili, l’incipit con le motociclette in «Roma» di Federico Fellini. E accanto ai maestri, tanta vita marginale che secondo Rosi (e anche secondo noi) ha non solo pieno diritto di esistere, ma anche di reclamare ogni tanto una visibilità che non sia soltanto un trafiletto di cronaca nera. In questo senso «Sacro GRA» è un convinto inno alla vita che non finisce: perché quando passeranno loro, ci sarà qualcun altro. L’importanza del lavoro di Rosi sta nel fatto di non aver minimamente speculato su povertà, emarginazione e tristezza, trasformando «Sacro GRA» in un coraggioso esercizio di speranza.SACRO GRA di Gianfranco Rosi. ITALIA 2013; Documentario; Colore