REVOLUTIONARY ROAD
di Francesco Mininni
Richard Yates ha scritto «Revolutionary Road» nel 1961, ottenendo (non a caso) il plauso di Tennessee Williams, ma nessun riconoscimento ufficiale. Paragonato a Dreiser e al suo «Una tragedia americana», ha atteso quasi mezzo secolo per avere una riduzione cinematografica lungamente inseguita e mai concretizzata. Non è difficile capire perché: nella vicenda raccontata da Yates non c’è niente, proprio niente di politicamente corretto. L’America degli anni Cinquanta, piena di sogni e di illusioni, è messa a nudo in tutta la sua disperata ricerca di un benessere e una stabilità che dovrebbero corrispondere alla felicità ma che si rivelano invece illusori. L’attore si toglie la maschera e rivela il volto di un uomo che nel lavoro, nel guadagno e nella famiglia non trova le motivazioni per lottare e vincere. In questo senso, anche se il paragone potrebbe risultare riduttivo e schematizzante, Yates si pone come l’anti-Disney. Non quello del cinema d’animazione: il Disney delle commedie familiari dove, qualunque fosse il problema, tutto si risolveva intorno alla tavola da pranzo intonando filastrocche del genere Bibidi Bobidi Bu. In «Revolutionary Road», invece, niente si risolve in senso positivo ed ogni sogno lascia il posto alla freddezza della realtà.
Frank e April Wheeler, sposati e con due figli, vanno a vivere in una cittadina del Connecticut. Lui lavora come venditore in un’azienda che detesta. Lei è un’attrice mancata che accarezza il grande sogno di mollare tutto per andare a vivere a Parigi. Una terza gravidanza e l’indecisione di Frank allontanano il sogno, dal quale però non c’è risveglio. April ha deciso e interrompe la gravidanza con le proprie mani. Morirà per l’emorragia susseguente. Di loro più nessuno vorrà parlare.
Un conto è la teoria, un conto la pratica. I molti spunti interessanti del romanzo di Yates avrebbero trovato forma cinematografica più compiuta in mani diverse da quelle di Sam Mendes. Regista teatrale proiettato nell’Olimpo cinematografico dal grande successo di «American Beauty», conserva uno stile statico e solenne che non depone mai a favore del ritmo delle sue storie. Così, di solito, i suoi film si ricordano per grandi prove d’attore, pregi fotografici e occasionali scene di valore. Mai, però, per un risultato omogeneo e unitario. Nel caso di «Revolutionary Road», ad esempio, non giova l’accumulo di situazioni drammatiche che conduce da una parte alla saturazione, dall’altra all’irritazione. Si comincia con il fallimento di April in veste d’attrice, si prosegue con un furioso litigio durante il ritorno a casa, si approda a un futile tradimento coniugale di Frank con una collega. E tutto questo in neanche mezz’ora di racconto. Così siamo immediatamente proiettati in una situazione senza uscita, quasi claustrofobica, che non deve arrivare in fondo per mettere le carte in tavola. E tutto viene affidato alle capacità dei due protagonisti, Leonardo Di Caprio e Kate Winslet, di nuovo insieme dodici anni dopo «Titanic». Se però Kate Winslet interpreta al meglio il difficile personaggio di April, Di Caprio tende ad eccedere rendendo Frank un esagitato invece che un immaturo rabbioso. Alla fine, il personaggio veramente sorprendente del film è il malato di mente, figlio della padrona di casa, interpretato da Michael Shannon. L’unico, nella sua follia, a capire dove sta andando il mondo e a sbattere in faccia ai Wheeler una verità che forse non vorrebbero sentire. Che il sogno americano è un’illusione e che, là fuori, c’è la vita che aspetta.
REVOLUTIONARY ROAD (Id.) di Sam Mendes. Con Leonardo Di Caprio, Kate Winslet, Kathy Bates, Michael Shannon, David Harbour. USA 2008; Drammatico; Colore