Quo vado?
Ci sono diversi modi di affrontare il fenomeno Checco Zalone. Quello snob, che prevede di non andarci perché ci vanno tutti. Quello entusiasta, che lo elegge ogni volta campione d’incassi senza sapere perché. Quello diffidente, che fatica a scrollarsi di dosso i classici della commedia italiana senza accorgersi dell’evidente continuità. Quello con la puzza sotto il naso, che ride (talvolta senza farsene accorgere) ma stigmatizza volgarità e qualunquismo sentendosi superiore. Sarà. A noi pare che un fenomeno del genere, che corrisponde a quattro film ognuno dei quali ha superato gli incassi del precedente collocando Zalone in vetta alla classifica dei film italiani più visti in assoluto, richieda un’analisi attenta, non superficiale.
Non si può dire che «Quo vado?» incassa in ragione del numero di copie uscite: se anche fosse in tutte le sale, lo spettatore non interessato non ci andrebbe. In prima battuta, al di là della popolarità del personaggio e delle sue buffe acrobazie verbali, diremmo che, siccome i suoi film parlano di attualità e nel caso specifico della crisi, ne parlano in termini che il pubblico gradisce più del catastrofismo dei notiziari e anche dell’ottimismo calcolato di Matteo Renzi. Sarebbe un errore incasellare il lavoro di Zalone nello scomparto della comicità demenziale.
Come svariati suoi illustri predecessori, e in particolare Alberto Sordi con la sua proverbiale arte di arrangiarsi, Zalone parla del presente non raccontando barzellette, ma pescando a piene mani nell’attualità per dipingere un quadro non scontato, non becero, non superficiale, anche se indubbiamente paradossale e sopra le righe. Sia lui che il regista Gennaro Nunziante sanno dove andare. E il fatto che qualcuno abbia detto che sono molto più intelligenti dei film che fanno non è una detrazione: Checco e Gennaro fanno i film che vogliono e, a quanto pare, che anche il pubblico vuole. Se c’è calcolo, come rinfacciarglielo? Il successo di «Cado dalle nubi», certamente imprevisto anche per loro, ha innescato un meccanismo che prevede soltanto variazioni marginali. In sostanza, nel momento in cui hanno capito che era inutile racchiudere l’energia del mattatore in uno sviluppo narrativo che poteva essere d’intralcio, hanno trasformato un film («Sole a catinelle») in uno scatenato one man show trovando la strada giusta. E allora, anche se «Quo vado?» non mostra variazioni neanche marginali al di là di un’ambientazione internazionale, il successo se lo meritano alla faccia dei puristi.
Checco Zalone (il personaggio si chiama come l’attore, anche se il nome anagrafico è Luca Medici, ad indicare una totale sovrapposizione) è cresciuto con l’obiettivo del posto fisso. E l’ha ottenuto nell’ufficio provinciale delle licenze di caccia e pesca. Quando però arriva la crisi e i dirigenti cercano di tagliare teste per ottimizzare le spese, lui non molla, non firma il licenziamento e accetta qualunque destinazione, sia essa l’Africa o il Circolo Polare Artico, pur di non perdere le sue certezze, consigliato strada facendo da un senatore trafficone. Naturalmente manterrà il posto e riuscirà anche a tornare a casa.
Quel che si può dire di «Quo vado?» è che forse era lecito aspettarsi uno sviluppo meno facile e più politicamente scorretto. L’ottimismo senza confini, invece, finisce per trasformarsi in buonismo e, soprattutto nella seconda parte, edulcorare troppo un materiale potenzialmente devastante. È anche vero, però, che non si poteva chiedere a Zalone un’analisi compiuta e veramente realista del presente che viviamo. Più «Hellzapoppin» e «La guerra lampo dei fratelli Marx» che «Il sorpasso» e «Una vita difficile», «Quo vado?» è ciò che i suoi autori volevano: una farsa scatenata capace di mettere di buonumore anche chi la crisi la vive sulla propria pelle. Non è Zalone a cavalcare l’onda del successo, ma il pubblico a cavalcare l’onda di Zalone.