Paura e desiderio

Certo, «Fear and desire» è, dopo tre cortometraggi, la nascita di un genio. Ma è anche la dimostrazione pratica della grande intelligenza di un uomo che, partito a testa bassa con ambizioni smisurate, ha capito subito che la strada giusta da seguire era un’altra. Non è un caso se, dopo questo exploit simbolico, Kubrick si ripresentò al grande pubblico con due film noir, «Il bacio dell’assassino» e «Rapina a mano armata», approfondendo gli studi fotografici nel primo e le tematiche esistenziali nel secondo prima del definitivo ingresso nel cinema dei grandi con «Orizzonti di gloria». «Fear and Desire» aiuta a capire come l’ansia esistenziale dell’autore avesse bisogno di poggiare su qualcosa di concreto (un intreccio, una storia) che gli permettesse di muoversi in libertà senza ignorare alcune regole da rispettare, a differenza di questo primo, piccolo film che mostra un’ambizione intellettuale enorme e la convinzione di poter esprimere le proprie idee in un ambito totalmente surreale, un po’ pirandelliano, un po’ kafkiano, simbolico da qualunque parte lo si guardi, a lungo andare incapace di liberarsi delle trappole da se stesso disseminate sul cammino. Kubrick c’è, ma deve ancora uscire dal guscio dell’esordiente di talento convinto di bastare a se stesso.
In una foresta si combatte una guerra. Non ci sono elementi storici. I soldati parlano come noi, ma non per questo sono identificabili, tanto vero che anche il nemico parla come noi. La pattuglia dispersa dopo la caduta dell’aereo deve attraversare le linee nemiche percorrendo un fiume. Ci saranno la costruzione di una zattera, l’incontro con una ragazza del posto, la sua morte per mano di un soldato che recita Shakespeare e sparisce nel buio, l’attacco a un avamposto nemico. A quanto par di capire, la guerra continua.