PARANOID PARK

DI FRANCESCO MININNI

Gus Van Sant, più che un regista nel senso tradizionale della parola, è uno sperimentatore. Nel senso che, affrontando argomenti che già in molti hanno trattato, si concentra moltissimo sul linguaggio dell’immagine, quindi sul modo di entrare nella storia e poi di porgerla al pubblico, invece che su una drammaturgia tradizionale o men che meno su un film a tesi. «Elephant», uno sguardo diverso sul massacro della Columbine High School, rappresenta a tutt’oggi il suo tentativo più esplicativo al riguardo. Ma anche «Paranoid Park», tratto da un romanzo di Blake Nelson, ha qualcosa da dire. Perché, se è vero che Van Sant non giudica i suoi personaggi ma si limita ad osservarli, è anche vero che, a cose fatte, non può che uscirne un punto di vista sull’America contemporanea. E non c’è da stare allegri. In un film così non è solo fuorviante, ma anche molto difficile raccontare la storia. Tuttavia, trattandosi di una lineare concatenazione di eventi, possiamo dire che l’adolescente Alex, appassionato di skateboard e sicuramente all’oscuro di quel che potrà essere la sua vita da adulto, è interrogato a scuola da un poliziotto che indaga sull’omicidio di un controllore ferroviario, per l’appunto colpito da uno skateboard prima di essere tagliato in due da un treno. Alex può dare notizia dei propri spostamenti e di tutto ciò che ha fatto quella sera. Non dirà, naturalmente, che è stato lui ad assestare il colpo a scopi difensivi e che l’arrivo del treno ha fatto precipitare tutto nell’incubo. Lui non lo dirà e nessuno lo verrà a sapere. La vita potrà continuare: qualcuno sullo skateboard, qualcuno a piedi.

È evidente che a Van Sant non interessa tanto lo svolgersi degli eventi, quanto seguire, pedinare, stare addosso ad Alex rendendolo praticamente il centro dell’universo. Un universo molto triste, nel quale la figura del ragazzo è sempre a fuoco e tutto il resto si perde nella nebbia. Così facendo, Van Sant fa capire di essere molto interessato alle espressioni di attonito stupore, agli atteggiamenti, al modo di vivere una vita fatta solo di punti interrogativi, al rapporto tra coetanei, a giornate che scorrono una uguale all’altra, ma non certo al delitto come spartiacque etico. Alex vive una sorta di abulia generata più dalle condizioni esterne che da se stesso: tutt’al più lui non fa niente per uscirne e finisce per farsi coinvolgere in qualcosa assolutamente al di là delle sue intenzioni. L’essenziale è leggere «Paranoid Park» per quel che è: un tentativo di avvicinarsi al mondo degli adolescenti fuori da ogni convenzione narrativa: Van Sant usa la macchina da presa, il digitale e persino il super8 per cercare un linguaggio che sia il più vicino possibile a quello dei ragazzi di oggi, stilisticamente discontinuo, eclettico, ruvido e disperatamente alla ricerca di una minima certezza che possa dare lo stimolo ad andare avanti. Bisogna dire che in questo senso il suo film finisce per essere realmente innovativo e che riesce a cambiare con il linguaggio una vicenda che, raccontata tradizionalmente, avrebbe fatto dire «Cose già viste e sentite mille volte». Ed è anche evidente come, senza preoccuparsi di istanze direttamente sociali o antropologiche, Van Sant riesca a darci un segnale di quel che possa essere l’America oggi: dalle belle speranze all’appiattimento degli orizzonti alla noia al morire per niente, il passo è sempre più breve. E mentre gli adolescenti sfrecciano sugli skateboard illudendosi di andare e restando sempre sul posto, tanti altri che ruote non hanno sono destinati a restare a piedi.

PARANOID PARK (Id.) di Gus Van Sant.