Paradossale bisogno di certezze: «LA 25a ORA»
Montgomery Brogan, detto Monty, è capace d’amore: ama Naturelle e le è fedele, può salvare un cane trovato ferito per strada, ha un vivo senso dell’amicizia e non tradirebbe mai il broker Francis e il docente di letteratura Jacob. Ma è anche uno spacciatore di droga. Ha fatto i soldi così, un modo come un altro nella Grande Mela, e tutto gli è andato bene fino al giorno in cui la polizia lo ha beccato. Tradito da qualcuno, Monty sa che il giorno che sta vivendo è il suo ultimo di libertà. Dopo lo attendono sette anni a Otisville. In queste ventiquattr’ore Monty vuole chiudere i conti: con Naturelle, con gli amici, con il padre barista, con la mafia russa che gli ha dato lavoro, con il cane Doyle. E se chiudere i conti vuol dire fare un bilancio della propria esistenza, ben venga.
«La 25a ora» si apre su Ground Zero con i fasci di luce al posto delle Twin Towers. Un dialogo importante tra Francis e Jacob ha luogo davanti a una finestra che dà sulle macerie. Monty, allo specchio, dà voce a una rabbia a 360° che fa piazza pulita di neri, pakistani, preti, coreani, agenti di Borsa e Al Qaeda per trasformarsi poi in un’autoaccusa diretta. Niente è casuale: Spike Lee mette in scena un mondo passato bruscamente dalle certezze alla paura dove, se anche l’unica sicurezza fosse quella di sette anni di carcere, sarebbe già abbastanza per avere qualcosa di concreto da cui poter ricominciare. Per Monty fuga e libertà non sarebbero altro che un prolungamento dell’angoscia: affrontare le proprie responsabilità equivale a un atto di coraggio che ha il sapore della sfida prima a se stesso e poi al sistema. La stessa cosa che ha fatto Spike Lee: un film esplicito e durissimo, ma dallo stile controllato e dalla profonda interiorità. Una sorpresa.