One on one
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Tuttavia dobbiamo continuare a tener conto di un dato essenziale: tutto ciò che Ki-Duk sta attraversando è conseguenza della profonda crisi interiore che lo portò a chiudersi in casa isolandosi dal resto del mondo. Ciò produsse un film come «Arirang», cronaca fedele di quell’esperienza, e successivamente la precisa volontà dell’autore di denunciare senza mezzi termini una situazione sociale e politica insostenibile, prima con «Pietà», poi con «Moebius».
Continuiamo a pensare che il miglior Ki-Duk sia quello meno estremizzato, ma la continuità dell’opera è cosa certa. Di «One on One» conta più il titolo originale, che suona «Chi sono io?». Come dire che l’autore riconosce l’evoluzione dei fatti e si interroga sulla propria identità artistica. Con una risposta fatalista: comunque vada, deve proseguire su questa strada, ovvero non può esimersi dal farlo.
Il fatto scatenante è il rapimento e l’uccisione di una ragazza. Non sappiamo chi sia né perché sia stata uccisa da un vero e proprio commando che risponde a ordini superiori. Tempo dopo, però, un gruppo di cittadini guidati da un sedicente ufficiale individua i membri del commando, li cattura uno a uno («One on One», giustappunto) e, torturandoli spietatamente, ottiene confessioni firmate col sangue. Lo scopo del leader è quello di arrivare in cima alla piramide smascherando il primo responsabile del fatto. Tra i membri del gruppo, però, comincia ad insinuarsi il tarlo del dubbio: troppa violenza, nessuna certezza finale, l’idea che comunque il leader stia rispondendo al desiderio di vendetta più che all’ansia di giustizia. E il gruppo si assottiglia.
Kim Ki-Duk è sicuro che la situazione della Corea del Sud stia diventando invivibile e non esita a denunciare. Per assurdo, però, sono proprio i riferimenti al contemporaneo ad essere in fin dei conti pretestuosi e posticci. «One on One» funziona molto più come dramma esistenziale simbolico che come attacco diretto a una situazione di fatto. Così sono molto più riconoscibili i riferimenti a Pirandello («Sei personaggi in cerca d’autore» su tutti) che alla Corea del Sud che dovrebbe essere l’oggetto della critica. Quando si ipotizza che i giustizieri stiano in realtà recitando una parte, con tanto di costumi e ruoli, Ki-Duk getta la maschera e torna ad essere il cineasta surreale che ci è più familiare e gradito. Troppo tardi, però, per raddrizzare le sorti di un film che, alla resa dei conti, non racconta una storia molto diversa da quella di «Pietà»: un atto di violenza inspiegabile e gratuito non può che dare il la a sempre maggiore violenza che, indipendentemente da quanto l’autore pensi e dichiari, non prevede in alcun modo la via della speranza.