Non essere cattivo
Talvolta, forse molte volte, si usa a sproposito l’espressione film-testamento riferendosi all’ultima opera di un regista scomparso. Dire, ad esempio, che «Complotto di famiglia» sia il film-testamento di Alfred Hitchcock è una sciocchezza, mentre è sacrosanto indicare «C’era una volta in America» come film-testamento di Sergio Leone.
Indubbiamente «Non essere cattivo» è il film-testamento di Claudio Caligari. Autore di pochi film, ma molto amato dai cultori del cinema povero, underground, controcorrente, Caligari si rivelò nel 1983 con «Amore tossico», seguito nel 1998 da «L’odore della notte», nel 2005 da «Anni rapaci» e adesso da «Non essere cattivo», che è riuscito a finire di girare prima di arrendersi alla malattia nel maggio di quest’anno affidando all’amico fraterno Valerio Mastandrea il compito di curarne l’edizione definitiva e la postproduzione.
Certo non immaginava che il suo film, di gran lunga il migliore della sua carriera, sarebbe stato scelto per rappresentare l’Italia agli Oscar. Ma, come dice Mastandrea, avrebbe commentato: «Normale». Superando incertezze da dilettante e il rischio incombente del luogo comune, Caligari ha voluto raccontare la periferia romana, quella dei ragazzi di borgata, in un momento (gli anni Novanta) in cui non era ancora esploso il fenomeno della malavita su larga scala ma erano già finiti i ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini. E lo ha fatto con il cuore, rispettando l’imperativo di non giudicare e riservando una sorpresa finale che spiazza completamente chi aveva già cominciato a preparare i fazzoletti per piangere addosso a un’Italia in disfacimento.
A Ostia, nel 1995, Vittorio e Cesare, amici da tutta una vita e fatalmente incamminati sulla strada della microcriminalità, si arrangiano con piccoli colpi, si scontrano con bande rivali e fanno uso di droga. Ma sono diversi. Cesare è un tenero e debole incapace che, anche volendo, non riuscirebbe mai a tirarsi fuori dei guai. Vittorio, che ha trovato in Linda un punto di riferimento, ha invece la forza per smettere con le stupidaggini, trovare un lavoro e cercare di farcela. Ma non vorrebbe farlo da solo e cerca di coinvolgere l’amico nel lavoro al cantiere, ovviamente senza riuscirci. Così Cesare finirà vittima di un proiettile che l’aspettava da tempo. Ma farà in tempo a lasciare una speranza: la sua donna, Viviana, è incinta. E il bambino che nascerà potrebbe vedere un mondo migliore.
È evidente che non è la storia a contare. «Non essere cattivo» racconta cose già viste e sentite. Ma Caligari ci mette una passione e diciamo pure un amore che rendono i suoi personaggi vivi e veri, barchette alla deriva in un mare in burrasca dove l’eventuale porto sicuro non ha niente di artefatto o banale, ma rappresenta una mèta che sarà raggiunta con coraggio e volontà, fuori di ogni trucco di sceneggiatura. Così Vittorio e Cesare diventano personaggi di passaggio dell’epoca: il primo guarda al domani, il secondo non riesce a distaccarsi dal passato. In poche parole, Vittorio sceglie la vita e Cesare la morte. Tutto questo, potenzialmente retorico, raccontato con uno stile asciutto che lo rende cronaca vera e viaggio nell’anima.
Grazie anche alla fotografia livida benché colorata di Maurizio Calvesi, che trasforma il neon in un elemento di stile e sfrutta architetture decadenti per rappresentare un mondo di coatti apparentemente senza uscita. Ma grazie soprattutto ai due protagonisti. Alessandro Borghi, attivo soprattutto in televisione, è un Vittorio forte e nervoso, capace di incanalare la forza in una direzione positiva. Luca Marinelli, già noto per «La solitudine dei numeri primi» e «Tutti i santi giorni», è un Cesare davvero perfetto, capace di far credere ad ogni sfumatura di debolezza, di rabbia e di dolore. E Claudio Caligari ci lascia un’opera che lo rappresenta in pieno: gente sbandata ai margini della società in un mondo più che distratto e spesso molto cattivo. Ma non è scritto da nessuna parte che non si possa cambiare.