MARGIN CALL

DI FRANCESCO MININNI

Ci sono alcune buone idee in «Margin Call» di J.C. Chandor che inducono a considerarlo più di un thriller politico-economico, così come «Le idi di marzo» di George Clooney era sicuramente più di un thriller politico e «Wall Street» di Oliver Stone più di un thriller economico. In sostanza Chandor ha voluto mantenere alcuni punti fermi: una sostanziale unità di luogo, tempo e azione, la volontà di affrontare questioni di alta finanza senza entrare nello specifico di analisi economiche che ben pochi avrebbero capito e soprattutto la ferma intenzione di raccontare una vicenda popolata di uomini e non di macchine. Ciò porta automaticamente a una considerazione che può sembrare persino scontata: non bisogna essere gelidi, cinici e privi di sentimenti per lavorare in una società finanziaria, ma si può diventarlo. «Margin Call», che più o meno significa l’ultima possibilità, può contare su un andamento molto serrato e appassionante, su un cast di attori di prim’ordine senza i quali nulla avrebbe potuto funzionare e su uno sguardo forse fatalista e di sicuro tutt’altro che rassicurante, ma almeno consapevole che talvolta lo spessore di una persona può anche fare la differenza. Anche se alla fine, comunque la si metta, è sempre la logica (se così la possiamo chiamare) del profitto a condurre le danze.

Dopo uno spietato gioco al massacro che ha ridotto drasticamente l’organico di una finanziaria, un giovane broker che ha ricevuto da un collega licenziato un file da completare si rende conto che, a seguito di una politica scriteriata, la società è sull’orlo del fallimento. I capi, avvisati del pericolo in sequenza piramidale, si riuniscono e, durante una notte lunghissima, decidono di svendere i pacchetti azionari ben sapendo che il mercato collasserà, che gli investitori saranno rovinati e che la loro credibilità di venditori scenderà a zero. Qualcuno deve combattere con problemi di coscienza, qualcuno no. Di certo, a dispetto del proverbio, la notte non porterà consiglio.

Aleggia su tutto il film, che si ispira neanche troppo velatamente al crollo della Lehman Brothers, il ricordo di «Americani», il film di James Foley tratto da un’opera teatrale di David Mamet e ambientato in un’agenzia di assicurazioni. Nel senso che chi lavora in quell’ambiente sa benissimo che determinate situazioni richiedono che svariate vite umane, siano esse di colleghi o di clienti, debbano essere calpestate senza remore. E che, anche così facendo, non esiste alcuna certezza che un determinato livello di vita possa essere mantenuto, così come il posto di lavoro. In questo senso «Margin Call» attualizza il discorso e, senza mezzi termini, parla di un oggi nel quale le certezze stanno proprio a zero. Non è un caso se la storia, una volta passata la lunga notte delle decisioni drastiche, si conclude con un funerale. Il funerale di un cane, l’ultimo legame di Sam Rogers con la propria umanità. In questo cupo orizzonte si muovono da maestri Kevin Spacey, Jeremy Irons, Stanley Tucci, Demi Moore e Paul Bettany, adeguatamente contornati da giovani emergenti come Zachary Quinto. Una squadra vincente che contribuisce in misura determinante alla riuscita di un film che, consapevole che l’argomento affrontato avrebbe potuto non essere particolarmente gradito al pubblico, ha fatto il possibile per arricchirlo di elementi spettacolari che comunque non distraessero dall’asse portante del racconto. Si può dire che «Margin Call» abbia trovato il giusto equilibrio tra esigenze spettacolari e rigore narrativo, soprattutto nel momento in cui le successive entrate in scena dei big (prima Kevin Spacey, poi Paul Bettany, infine Jeremy Irons) non corrispondono a mutamenti di rotta ma semplicemente a qualcosa in più che aiuta a chiarire il quadro d’insieme.

MARGIN CALL(Id.) di J.C. Chandor.Con Kevin Spacey, Jeremy Irons, Demi Moore, Paul Bettany, Zachary Quinto, Stanley Tucci. USA 2011; Drammatico; Colore