Maraviglioso Boccaccio
I Taviani dicono di no, che Boccaccio è anche altro. E per tradurlo in immagini scelgono cinque novelle: l’amore di Gentile Carisendi per Catalina (Riccardo Scamarcio e Vittoria Puccini), la burla dell’elitropia giocata da Bruno e Buffalmacco a Calandrino (Kim Rossi Stuart), l’amore possessivo di Tancredi per sua figlia Ghismunda al punto da far uccidere il suo amante Guiscardo (Lello Arena, Kasia Smutniak e Michele Riondino), il confronto tra la badessa Usimbalda e suor Lisabetta sull’amore carnale (Paola Cortellesi e Carolina Crescentini) e l’amore di Federico degli Alberighi per Giovanna che lo porterà a sacrificarle l’amato falcone (Josafat Vagni e Jasmine Trinca).
La scelta, è palese, va nella direzione del confronto diretto tra amore e morte. Catalina è data per morta e risorge al contatto delle labbra di Gentile. Ghismunda, alla morte di Guiscardo, sceglie il veleno informando Tancredi che amerà l’amato anche oltre la morte. Federico e Giovanna si sfioreranno la mano dopo la morte del falcone di lui e del figlio di lei, finché la serva non chiuderà pudicamente la porta sul loro amore. Fanno eccezione la burla a Calandrino e le distrazioni delle suore.
Ma, almeno nel primo caso, assistiamo a una rilettura del testo che mette in evidenza non tanto il babbeo burlato, ma il represso che, convinto di essere invisibile, si vendica con crudeltà di quanti quotidianamente lo sbeffeggiano e comunque va incontro alla fine che merita. Le suore? Beh, Boccaccio non è soltanto quello, ma anche. L’analisi del testo dello scrittore trecentesco potrebbe limitarsi a questo, magari con l’aggiunta di una precisa scelta espressiva dei Taviani: mettere in evidenza i sentimenti e anche le passioni più profonde senza mai abusare del mezzo espressivo, limitandosi a far intuire, a suggerire, in un certo senso a sussurrare al pubblico quanto comunque avverrà fuori campo.
Lo si capisce proprio dalla costante del sussurro: tra i personaggi delle novelle e tra i novellatori stessi intercorrono bisbigli dei quali non si riesce a distinguere le parole dette. È una richiesta di partecipazione del pubblico e contemporaneamente un’attestazione di stile. Come se i Taviani dicessero, a costo di livellare l’immagine senza acuti espressivi o poetici, che chi cerca cose troppo facili farebbe meglio a rivolgersi altrove. Il che significa coraggio, consapevolezza di sé e della propria autonomia artistica, grande spazio lasciato al desiderio e pochissimo al suo appagamento.
Qui occorre ricordare che le novelle del «Decameron» sono narrate l’un l’altro da dieci giovani (sette donne e tre uomini) rifugiatisi in campagna per sfuggire la peste nera che affligge Firenze. E che, grazie alla rigenerazione interiore dovuta a questa iniziativa, dopo quattordici giorni passati in compagnia e castità, i giovani sceglieranno di fare ritorno a Firenze. Così facendo, concedendo a Fiammetta, Panfilo, Filomena, Filostrato e agli altri più spazio di quanto avesse fatto Boccaccio, i Taviani tentano un’attualizzazione del testo: attraverso la fantasia, lo scherzo, persino il dramma, la ricerca di una motivazione che spinga questi ragazzi a non tirarsi fuori, ma anzi a ricaricare le batterie per portare la loro forza a chi non l’ha.
Un po’ di immaginazione al potere, come recitavano i figli del ’68. Ma non immaginazione a caso, bensì mutuata dall’opera di un grande della letteratura mondiale, che forse i figli del ’68 avrebbero messo volentieri all’indice.
«Maraviglioso Boccaccio» non è un capolavoro. Ma è, in tutto e per tutto, un film dei Taviani, con la loro passione, le loro idee, il loro stile (un po’ in understatement), la loro cultura.