«MANDERLAY»

DI FRANCESCO MININNIAvevamo lasciato Grace a Dogville dove, vista l’impossibilità di prodigarsi per il prossimo senza essere praticamente schiavizzata, le era toccato invocare l’intervento del padre e dei suoi gangster per ridurre tutto a un ammasso di macerie. In considerazione della sua vocazione di avvocata delle cause perse, non ci stupisce ritrovarla a Manderlay, in Alabama, in una tenuta dove, nonostante corra l’anno 1936, vige ancora la schiavitù. E così Grace si fa carico della responsabilità di emancipare la gente di colore rendendola padrona del proprio destino. Che, naturalmente, non è un compito facile né sulla carta né alla prova dei fatti. Perché, come Grace finirà per imparare, secoli di sopraffazione hanno convinto gli schiavi che quel modo di vivere è il migliore possibile e che non c’è cattiveria, ma giustizia, nei metodi del padrone. Finirà che, una volta svelato l’arcano, a Grace non resti che andarsene. Sempre che i suoi nuovi schiavi, disorientati al pensiero dell’autodeterminazione, siano disposti a lasciarla andare… Lars von Trier, per sua stessa ammissione, vive di provocazioni. Il che significa, a leggerla in modo positivo, che il suo processo creativo è un continuo fermento di idee in libertà. Oppure, a leggerla in modo negativo, che la necessità della provocazione è comunque superiore a qualunque serenità di giudizio. In «Manderlay», ad esempio, assistiamo a un mutare di volti e ruoli che può in un certo senso apparentarsi al mondo dei cartoon: Grace era Nicole Kidman e diventa Bryce Dallas Howard, il padre di Grace era James Caan e diventa Willem Dafoe, Lauren Bacall era una signora di Dogville e diventa la padrona di Manderlay. Il personaggio da cui Grace è attratta cambia di razza: in «Dogville» era il caucasico Paul Bettany, in «Manderlay» è l’afroamericano Issach de Bankolè. Il palcoscenico su cui si svolge l’azione, nero in «Dogville», qui diventa bianco. È evidente che, pur raccontando eventi drammatici che dovrebbero stimolare una riflessione, von Trier non può fare a meno di giocare. Il che, d’altronde, rientra nei suoi diritti di intrattenitore.

Si ha l’impressione, però, che il secondo tassello della sua trilogia sull’America sia più legato del primo a materiale di repertorio e quindi meno capace, rispetto a «Dogville», di ottenere un interessante effetto sorpresa. La questione razziale, a parte qualche insolita riflessione conclusiva sull’effettivo desiderio di liberazione della gente di colore (che in realtà appartiene alla vocazione del von Trier provocatore, non certo del sociologo o dello storico), lascia meno spazio alla possibilità di proporre qualcosa di originale. E così le scenografie stilizzate sono le stesse di “Dogville”, così come i rapporti tra i personaggi (indipendentemente dal colore della pelle) sono legati dalla stessa idea di profitto e sopraffazione. Unica differenza: una sana ironia conclusiva sul come e sul perché Grace fu costretta a lasciare Manderlay a piedi invece che in automobile.

Il terzo atto ci rivelerà se von Trier avesse effettivamente qualcosa di più e di meglio da dire, oppure se «Dogville» da solo gli avrebbe fruttato (per così dire) maggior gloria e celebrità.

MANDERLAY (Id.) di Lars von Trier. Con B. Dallas Howard, I. de Bankolè, W. Dafoe, D. Glover, L. Bacall.