Magic in the Moonlight
La magia, nel suo aspetto di contraltare fascinoso alla durezza della realtà, è evidentemente un tema che gli sta a cuore soprattutto perché gli permette di giocare sottilmente tra l’accettazione di un’illusione e la presa d’atto che comunque sarà la vita vera a prevalere. Ma, come tutti i temi molto frequentati da Allen, arriva il giorno in cui lo spazio concesso all’argomento è più ampio e il risultato già prevedibile in partenza.
«Magic in the Moonlight» non è neanche lontanamente un brutto film: ma la raffinatezza della messa in scena, i dubbi ancora più pronunciati sulle capacità del medium, le musiche d’epoca, i costumi e le scenografie non riescono neppure per un momento a catturare un’attenzione già irrimediabilmente distratta da una verità già scritta. Cioè, per il semplice fatto che il film è stato scritto e diretto da Woody Allen e che il protagonista Stanley Crawford è palesemente un suo alter ego (non a caso, il regista e l’illusionista sono due mestieri assai simili), non si dubita mai del fatto che la medium Sophie Baker sarà presto o tardi smascherata e che, come al solito, la razionalità avrà la meglio sulla magia. Il confronto tra realtà vera e realtà virtuale, insomma, non brilla per novità e la commedia stenta a decollare.
Stanley Crawford, in arte Wei Ling Soo, è un abilissimo illusionista che l’amico Howard convince a recarsi in Costa Azzurra nella residenza dei Catledge per smascherare la sedicente medium Sophie Baker, che approfitta della propria abilità per ottenere dai ricchi inglesi i finanziamenti necessari per l’avvio in grande stile della propria attività. Stanley dà per scontato di ingoiare in un solo boccone la fanciulla, ma dovrà fare i conti con la fascinazione, le atmosfere romantiche, la suggestione e, soprattutto, un imprevisto innamoramento. A un certo punto, insomma, sarà quasi convinto che Sophie non usa trucchi. E anche quando si convincerà del contrario, nulla potrà contro i segnali dell’amore.
Diciamo che Allen è molto bravo a far dimenticare che, in fondo, non sono un indagatore scientifico e una finta medium a confrontarsi. Lei è certamente una finta medium, ma lui è sicuramente un illusionista. Si tratta pertanto di due soggetti che lavorano nel medesimo campo e con le medesime finalità: orchestrare innocenti bugie per far sì che la gente trovi nell’illusione un minimo di conforto (illusorio, appunto) alla durezza della vita quotidiana. La Costa Azzurra del 1928 è senza dubbio un capolavoro di ricostruzione filologica, accompagnata da una musica che svaria da Cole Porter a Beethoven, da Ravel a Stravinsky al jazz di Ager e Rodgers.
Possiamo arrivare a dire che non c’è niente che non funzioni a dovere. Ma contemporaneamente ci tocca rilevare come il meccanismo sia già conosciuto, le strade già percorse, la verve assai meno brillante. «Magic in the Moonlight», se consideriamo la frequenza annuale dei film dell’autore newyorkese, appartiene di diritto al versante delle opere interlocutorie che rappresentano una pausa di riposo in attesa di (tutti se lo augurano) nuovi approfondimenti, non importa se seri o faceti dal momento che la natura stessa di Allen gli impedisce da tempo di separare le due componenti.