«L’UOMO SENZA SONNO»
Trevor Reznik, operaio alle macchine, non dorme da un anno. Vive solo, si confida soltanto con la prostituta Stevie, parla con la barista dell’aereoporto Marie, è perseguitato da sinistri personaggi e incubi a occhi aperti. Magro fino al patologico («Se tu fossi più magro, spariresti»), Trevor provoca un incidente sul lavoro che causa ad un collega la perdita di un braccio: dopodiché comincia a vedere persone che non ci sono, ad essere convinto di un complotto ai propri danni, a cercare qualcuno disposto a credergli. Quando i pezzi si ricomporranno (non proprio tutti: quasi tutti), potremo misurare il baratro della follia e la forza devastante del senso di colpa.
La scommessa di Anderson è rischiosa: far sì che il pubblico si interroghi continuamente sulle visioni di Trevor, sulle persone che quotidianamente incontra e sulle esperienze che vive, chiedendosi se tutto ciò esista realmente o sia soltanto il frutto di una mente malata. La differenza, rispetto a «Session 9», è che qui è molto difficile credere a un mondo intero coalizzato contro il protagonista, il che rende comunque prevedibile una spiegazione di tipo razionale. Superato questo scoglio narrativo, però, «L’uomo senza sonno» ha da offrire un andamento ricchissimo di riferimenti colti: Trevor legge «L’idiota» di Dostojevskij e «Il castello» di Kafka, la musica di Roque Banos evoca le sonorità di Bernard Herrmann per Hitchcock, il complotto nel quale ogni faccia conosciuta potrebbe nascondere un nemico è materiale di Polanski e de «L’inquilino del terzo piano», la comparsa e scomparsa di personaggi sinistri e i continui scambi di ruolo rimandano agli incubi di David Lynch.