L’ULTIMO INQUISITORE

DI FRANCESCO MININNI

Quando Milos Forman ha a disposizione materiale narrativo di prim’ordine e un occhio metaforico ben aperto, riesce a convincere il mondo intero con un’opera come «Qualcuno volò sul nido del cuculo». Quando ha alle spalle un testo teatrale provocatorio e colto, riesce a reinventare la storia appassionandoci con «Amadeus» o intrigandoci con «Valmont». Se però punta direttamente a temi del passato intendendo di proiettarli sul presente per creare un parallelo tra la Spagna dell’Inquisizione e il mondo in cui viviamo, i contorni si fanno più confusi. Né la sceneggiatura di Jean-Claude Carrière né la fotografia di Javier Aguirresarobe né il lavoro scenografico di Patrizia von Brandenstein riescono a salvare «L’ultimo inquisitore» (infelice titolo italiano di «Goya’s Ghosts») dallo schematismo politico, dal melodramma a tinte forti, dal semplicismo storico, dall’idea di una polemica troppo forte e marcata per poter credere alla sua spontaneità.

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, in Spagna, la Santa Inquisizione governa quasi con pieni poteri imprigionando innocenti e costringendoli sotto tortura a confessare le bestemmie più nefande. Il pittore Francisco Goya, ritrattista e personale amico del tenebroso padre Lorenzo, riesce sempre a sfuggire ai sospetti del tribunale. Ma è costretto ad esporsi in prima persona quando Ines, figlia di nobili e sua musa ispiratrice, è imprigionata con l’accusa di giudaismo.Fin qui «L’ultimo inquisitore» è un’appassionata, pittorica, polemica riproposta dell’eterno conflitto tra l’artista e il potere. Quando però padre Lorenzo, caduto in disgrazia, fugge in Francia e si converte agli ideali illuministici e rivoluzionari, il film si trasforma in un melodramma che, senza particolari sottigliezze, spara a zero su qualunque tipo di autorità concludendo fatalisticamente che la storia ha i suoi cicli e che gli uomini possono farci ben poco. Tutt’al più, trovare conforto in una tenera follia.

Nettamente diviso in due blocchi narrativi, il film di Forman ne ha per la Chiesa (quella Chiesa o la Chiesa in assoluto? non è facile capirlo) identificata come un bieco centro di potere che, mutando a seconda del mutare dei venti politici, riesce sempre a mantenere un controllo temporale sul mondo. Ne ha per il potere politico, sia esso rappresentato da un cardinale o da Napoleone Bonaparte, nella sua volontà di portare la pace con le armi nella certezza che i soldati saranno accolti dalla popolazione locale come salvatori (già, proprio le stesse parole rivolte da Cheney ai soldati americani in partenza per l’Iraq). In questo senso ne ha per tutti. Così, invece di concentrarsi su quelle tematiche che comunque sarebbero uscite dal confronto tra Goya e i potenti, parte lancia in resta anteponendo la polemica in chiave attuale all’analisi attualizzante del passato. Forman sbaglia nell’assegnare allo svedese Skarsgard la parte di Goya e a Bardem quella di Lorenzo in un’evidente inversione di ruoli. E ritrova la vena più autentica del cineasta di razza soltanto in un finale di tenera, desolata follia. Naturalmente, ha confezionato un film di successo.

L’ULTIMO INQUISITORE (Goya’s Ghosts) di Milos Forman. Con Javier Bardem, Natalie Portman, Stellan Skarsgard. SPAGNA 2006; Drammatico; Colore