L’OSPITE INATTESO
DI FRANCESCO MININNI
«L’ospite inatteso» non è un capolavoro. Eppure, nella sua semplicità che talvolta diventa semplificazione, riesce ad informarci di vita vissuta con chiarezza e leggerezza di tocco in modo da toccarci il cuore. Thomas McCarthy non è Altman, ma neanche ambisce ad esserlo.
Nel suo piccolo, però, ha qualcosa da dire sulla democrazia americana, sul paese delle occasioni, su quanto tutto sia cambiato dopo l’11 settembre e su quanto poco basterebbe per vivere tranquilli senza per forza sospettare che il vicino di casa sia una spia o che un qualunque extracomunitario possa trovarsi in America soltanto per distruggere.
Walter Vale, vedovo, professore universitario di economia, abitudinario e ormai rassegnato alla solitudine, potrebbe proprio essere l’americano medio. Walter insegna e vive nel Connecticut, finché la necessità di presentare un saggio a un convegno lo porta a New York, dove ha una casa. Ebbene, cosa penserebbe l’americano medio se, entrando in casa, la trovasse occupata da un siriano e una senegalese? Come minimo, che c’è stata un’effrazione. Nel peggiore dei casi, di aver casualmente scoperto una cellula islamica impegnata in chissà quali complotti. Walter, invece, crede alla versione di Tarek e Zainab: la casa è stata loro affittata da un imbroglione spacciatosi per suo amico.
E va anche oltre: rendendosi conto che i due non hanno altri posti dove andare, li invita a restare finché non troveranno adeguata sistemazione. Tutto questo rientra nei semplici principi del vivere civile. Poi, però, Tarek si offre di insegnargli a suonare il tamburo.
E Walter, in un certo senso, scopre un mondo che comprende anche una parte di sé prima latente. Per questo ed altri motivi, quando Tarek sarà arrestato e rinchiuso in un centro di detenzione Walter si sentirà in dovere di occuparsi di lui. E forse di dare un senso alla propria esistenza.
«L’ospite inatteso» ha l’andamento e i toni della commedia amara. Ma ha soprattutto la capacità di mantenere in difficile equilibrio una vicenda che avrebbe potuto molto facilmente scivolare nel melodrammatico o nel tragico andando sopra le righe. In particolare con l’entrata in scena di Mouna, madre di Tarek, si poteva rischiare una improbabile e controproducente storia d’amore.
È ovvio che il film non racconta la storia di un semplice rapporto umano.
«L’ospite inatteso» parla del dopo 11 settembre, di quanto sia difficile essere stranieri in America, della necessità del dialogo per dare un senso a una faticosa democrazia, di giustizia e ingiustizia, di quanto un semplice tamburo possa cambiare la vita di una persona rendendola partecipe invece che indifferente. Poi, naturalmente, McCarthy pensa anche al pubblico. Ma c’è da chiedersi se proporre un film come questo al pubblico americano sia più un atto dovuto al mestiere o al coraggio.
A noi sembra che il film sia una chiara dimostrazione di quanto si possa essere toccanti e profondi partendo magari da un progetto tutt’altro che pretenzioso. E di come un attore destinato al ruolo di perenne caratterista possa improvvisamente trasformarsi in un «timido» mattatore avendo dalla sua la semplice caratteristica di assomigliare un po’ a tutti noi.