Locke

Da una parte strutturando il racconto come una corsa notturna in macchina senza che praticamente la macchina da presa esca mai dall’abitacolo della BMW del protagonista, dall’altra mettendo in campo questioni etiche ed esistenziali tutt’altro che banali con la precisa intenzione di approfondire cose che attualmente si tende troppo spesso a superficializzare. Il risultato, nell’una e nell’altra direzione, è notevole. Dal punto di vista tecnico la scommessa è vinta perché i novanta minuti del film (tempo reale, unità di luogo, tempo e azione) scorrono in un fiato. Dal punto di vista tematico si è portati a condividere le problematiche dell’uomo al volante, quindi automaticamente a confrontarlo (confrontarci) con noi stessi provando a immaginarci di dover vivere una situazione analoga (e pregando vivamente che ciò non accada). Knigth, pertanto, dimostra palesemente che «Locke» non è soltanto una scommessa tecnica, ma anche un tour de force morale.

Ivan Locke, capocantiere di grande affidabilità ed esperienza, è in attesa di sovrintendere alla più grossa colata di calcestruzzo della sua carriera. I suoi capi, sia gli americani che forniscono la materia prima che gli inglesi costruttori, hanno piena fiducia in lui. Ivan ha anche una famiglia: la moglie Katrina, due figli, una partita di calcio da vedere insieme, il solito tran tran. Ma c’è anche Bethan, la donna di una notte, che è rimasta incinta, è ricoverata per il parto e non ha nessuno al mondo. Ivan sa di aver commesso un errore, ma ciò non lo esime dal prendersi le proprie responsabilità. Nel viaggio verso Londra, parlando al telefono con il capo, un collega, la moglie, i figli e Bethan, capisce di mettere in gioco tutto. Ma non per questo è disposto a fingere o ignorare.

In effetti, più dell’idea di ambientare tutto il film all’interno di un’automobile che di per sé ha già qualche precedente, colpisce l’approfondimento del personaggio principale (si direbbe unico, perché gli altri sono soltanto voci al telefono). E qui torna utile la scelta di Tom Hardy, che in un certo senso ci aveva abituati a personaggi estremizzati in film sopra le righe, da «Bronson» di Nicolas Winding Refn a «Inception» e «Il cavaliere oscuro – Il ritorno» di Christopher Nolan. Spogliato di ogni trucco e a enorme distanza da scene d’azione ed effetti speciali, Hardy dimostra di essere perfettamente in grado di affrontare la macchina da presa a tu per tu senza possibili distrazioni e, in novanta minuti, trasmette di volta in volta decisione, angoscia, consapevolezza, coraggio, paura, rassegnazione, commozione, fierezza, pentimento e dignità usando nient’altro che gli occhi e i muscoli facciali. Così «Locke» (che potrebbe essere anche, vagamente, un titolo simbolico: locked, in inglese, significa «chiuso», «bloccato») diventa da un viaggio verso Londra un viaggio all’interno di una persona che sta decidendo, molto rapidamente, se il proprio senso di responsabilità sia abbastanza forte da indurlo a mettere in gioco tutto: la famiglia, il lavoro, probabilmente anche il futuro tout court. E di conseguenza «Locke», che per fortuna non ha proprio niente della predica o della tirata moralistica, diventa un film altamente morale sull’uomo, sull’entità degli errori che può commettere e sul modo di ascoltare la propria coscienza anche nel caso in cui il prezzo da pagare rischia di essere altissimo.

Da tutto questo è facile capire che Steven Knight non ha alcuna intenzione di parlare del domani, di un qualunque domani. Ivan Locke ha preso la sua decisione ed è intenzionato a comportarsi di conseguenza. Il vagito finale del neonato, che di solito è segno di speranza, qui vuol dire soltanto che tutto è compiuto. E per lo spettatore, che comunque dovrebbe rispettare Ivan, non c’è alcuna possibilità di prevedere il futuro. Che fatica essere uomini.LOCKE (Id.) di Steven Knight. Con Tom Hardy, Andrew Scott, Ruth Wilson, Ben Daniels, Olivia Colman, Tom Holland. USA/GB 2013; Drammatico; Colore