Lo sciacallo
«Lo sciacallo» di Dan Gilroy tenta la difficile strada di abbinare il thriller alla disamina sociale, umana e psicologica non tanto di un personaggio, quanto di una categoria, di un modo di essere, di uno stile di vita. Difficile perché è sempre presente il rischio di generalizzare, di banalizzare e di rendere la simbologia preponderante rispetto al realismo. Cioè, Gilroy avrebbe potuto privilegiare le situazioni da thriller confezionando un film di genere dalle regole facilmente decodificabili, oppure disinteressarsi dell’intreccio trasformando Bloom in un gelido simulacro.
Possiamo invece dire che «Lo sciacallo» mantiene un positivo equilibrio tra le due strade ottenendo un risultato non eccezionale, non originale, non devastante ma di un certo interesse, più nei contenuti che nella forma. E ci preme sottolineare che la maggior parte del merito va ascritta non al regista e sceneggiatore, ma al protagonista Jake Gyllenhaal: molto dimagrito, con gli occhi spalancati su un mondo che potrebbe essere il suo personale parco giochi, cinico e crudele, disposto a tutto pur di salire la scala sociale, del tutto insensibile a valori che non conosce o che potrebbero frapporsi tra lui e l’obiettivo da raggiungere, riempie la scena e lo schermo accompagnandoci verso una conclusione che, diversamente da ciò che sarebbe accaduto in passato, non è affatto morale o consolatoria.
Lou Bloom emerge dalla notte e si presenta come ladro di metalli o materiale elettrico. Presto, però, capisce di avere un altro talento e lo mette in pratica. Munitosi di una videocamera professionale, batte Los Angeles alla ricerca di avvenimenti cruenti da filmare e poi vendere a una rete televisiva. Di certo il materiale non gli manca, ma all’occorrenza si dimostra in grado di provocare quello che poi filmerà. E, una volta raggiunto il successo, non si fermerà davanti a niente: né all’occultamento di prove, né all’eliminazione di diretti concorrenti, né al provocato omicidio di un collaboratore scomodo. Siccome tutto questo fa sì che la sua posizione si rafforzi sempre più, la sua azienda non potrà che rafforzarsi ed espandersi.
E’ ovvio che un film come «Lo sciacallo» evoca precedenti famosi come «L’asso nella manica» di Billy Wilder, «Piombo rovente» di Alexander Mackendrick, «Quinto potere» di Sidney Lumet e persino «Re per una notte» di Martin Scorsese. Non si può neanche dire che Gilroy sia più coraggioso di chi lo ha preceduto: i tempi gli consentono qualunque surplus di cinismo e cattiveria. Il modo di usare il contenitore del thriller per parlare delle nuove frontiere dell’arrivismo, quindi dei nuovi yuppie, gli consente tuttavia di far passare il messaggio senza perdere di vista la tensione dell’intreccio. Il che porta automaticamente a far sì che lo spettatore, appassionato dal progredire dell’azione, possa anche non far caso a qualche schematismo (il rapporto con la giornalista televisiva) o a qualche situazione scarsamente credibile (il pedinamento degli assassini prima dell’intervento della polizia).