L’intrepido

La prima sensazione è quella di un’incertezza dell’autore nella scelta dei toni del racconto. Lo abbiamo sentito dichiarare che, dopo tanti film che lui definisce cupi, gli interessava affrontare una vicenda potenzialmente drammatica usando il linguaggio della commedia, dando così anche una svolta alla propria carriera. Ebbene, cominciamo da qui.

Posto che «L’intrepido» è un noto giornalino che, dagli anni 30 ai 90, ha presentato le avventure a fumetti di eroi italiani e stranieri, e che quindi Amelio lo usa sia come ricordo d’infanzia sia come immagine tra l’ironico e l’affettuoso di Antonio Pane, il nuovo tipo di eroe protagonista del film, bisogna dire che l’idea della commedia rimane abbastanza lontana da un film che è molto più drammatico e a tratti tragico ma che comunque non abbraccia fino in fondo alcun genere di rappresentazione. La presenza di Antonio Albanese come protagonista potrebbe essere fuorviante: Albanese è campione del grottesco e dell’umorismo surreale, ma è perfettamente in grado (vedi «Vesna va veloce» e «La seconda notte di nozze») di gestire personaggi drammatici. Nella realizzazione del film, insomma, si ha l’impressione che si sia venuta a creare una frattura tra le intenzioni dell’autore e il modo di concretizzarle. Sembra quasi che Amelio, forse insicuro della nuova strada affrontata, sia tornato sui suoi passi preferendo un contenitore più familiare. Il risultato è fatalmente incompiuto.

Antonio Pane è separato dalla moglie, ha un figlio che suona il sassofono ma stenta ad affermarsi e, per darsi da fare dopo il fallimento dell’attività di calzolaio, accetta di lavorare come rimpiazzo. Per un’ora, un giorno, una settimana, ogni qualvolta si presenta la possibilità di sostituire qualcuno che non può lavorare lui è pronto. Guadagna poco e niente, ma riesce stranamente ad essere contento. Il bandolo della matassa sta proprio nel difficile rapporto con il figlio. Quando questi potrà dare un calcio alle proprie insicurezze ed esibirsi in pubblico, Antonio finalmente sorriderà per qualcosa di concreto.

Si capisce bene come Amelio, questa volta, abbia cercato con particolare intensità un motivo di speranza. Se è vero che «L’intrepido», non particolarmente preciso nei riferimenti temporali, parla proprio dei tempi in cui viviamo, della crisi, della mancanza di lavoro, del crollo dei valori, della gente che fatica ad arrivare alla fine del mese, si può concordare sul fatto che sarebbe stato crudele non dare ad Antonio una ragione di vita. E sì che, cammin facendo, Amelio accumula una serie di tristezze che abbatterebbero un gigante: il lavoro retribuito poco e male, la ragazza conosciuta a un concorso e che finisce per suicidarsi, la ex-moglie che cerca di aiutarlo facendolo assumere dal nuovo compagno con esiti disastrosi, il figlio artista e quindi problematico. Si arriva a pensare che Antonio potrebbe essere addirittura una specie di minorato che è contento non perché spera, ma perché non capisce. E, di fondo, c’è il problema maggiore del film che è capace di offrire episodi di straordinaria profondità e poesia (la biblioteca, lo stadio), ma non di coinvolgere emozionalmente e di renderci partecipi delle disgrazie del protagonista. Molti hanno parlato di personaggio chapliniano riferendosi ad Antonio. A noi sembra che se proprio ci dev’essere un modello, non possa essere altri che Jacques Tati.L’INTREPIDO di Gianni Amelio. Con Antonio Albanese, Livia Rossi, Gabriele Rendina, Alfonso Santagata, Sandra Ceccarelli. ITALIA 2013; Drammatico; Colore