L’intervallo

DI FRANCESCO MININNI

Il fatto che «L’intervallo» di Leonardo Di Costanzo, oltre che dall’autore e da Mariangela Barbanente, sia sceneggiato anche da Maurizio Braucci, già tra gli sceneggiatori di «Gomorra», e che il film, detto in termini superficiali, parli di camorra, potrebbe indurre a parallelismi sostanzialmente fuori luogo. Mentre il film di Garrone è una requisitoria secca e spietata di un ambiente individuato da una molteplicità di episodi tra il realistico e il surreale, quello di Di Costanzo è la storia di un sogno individuato da una vicenda unica, lineare e in un certo senso struggente. Adottando uno stile ora duro e stringato, ora quasi lieve e malinconico, l’autore riesce, diciamo pure alla perfezione, a raccontare un modo di vivere che non è il solo, ma che in certi luoghi rischia di diventare vincolante e ingombrante.

A Napoli, in una villa abbandonata circondata da un giardino rigoglioso che, non curato, assume le caratteristiche di un bosco, Salvatore deve fare compagnia a Veronica in attesa del boss che deve parlarle. Lui è un venditore ambulante di granite, lei una ragazzina già troppo cresciuta per la sua età. Entrambi devono fare i conti con chi comanda: lui per fare un favore, lei per rendere conto dell’innamoramento per un affiliato a una cosca rivale. Ma devono anche fare i conti con l’età che hanno e che, per un momento, li fa tornare i ragazzi che sono e, dopo iniziali attriti dovuti al ruolo imposto di carceriere e prigioniera, recuperare quella dimensione di gioco e spensieratezza negata da una realtà troppo cattiva. Poi, naturalmente, arriva il boss e ritorna il reale.

Davvero, non si può non lasciarsi coinvolgere e in un certo senso accarezzare da questo film povero e scarno, girato senza fronzoli, parlato in un napoletano stretto che, pur essendo complessivamente comprensibile, ha richiesto la sottotitolazione, impeccabile nel fotografare il sogno di due ragazzi che, indipendentemente dalle circostanze esterne che incombono, riescono per un attimo a sollevarsi da terra e a recuperare una condizione di normalità (si direbbe attonita, anche se perfettamente naturale) che è loro consentita da uno spazio delimitato in grado di trasformarsi da prigione in parco giochi. Ecco, l’intervallo del titolo è proprio questo: quell’attimo di libertà che permette a Salvatore e Veronica di smettere di essere il guardiano e la reclusa e di trasformarsi in due compagni di giochi. Il tutto è arricchito dal fatto che, a stretto rigor di termini, la conclusione della vicenda non sarà tragica né traumatica: Veronica acconsentirà a non vedere più l’innamorato proibito e Salvatore recupererà il suo carretto tornando a vendere granite insieme al padre. Eppure è proprio questa apparente ricomposizione delle parti a provocare l’emozione più dolorosa, perché da domani Salvatore e Veronica non potranno più giocare, non avranno più una villa con sotterraneo e giardino a disposizione, non si potranno più raccontare storie di fantasmi e di lamenti notturni: dovranno semplicemente tornare a una tristezza quotidiana che non prevede astrazioni o svaghi: così è la vita dove è più difficile dire «a modo mio». Di Costanzo, riuscendo con naturalezza a modulare lo stile a seconda del momento e delle esigenze del racconto, ha costruito un film che tocca profondamente e che, essendo chiaro e comprensibile al di là di ogni possibile ambiguità, fa sì che Salvatore e Veronica ci divengano rapidamente familiari e ci rendano partecipi delle loro esistenze, del loro sogno e del loro risveglio. Francesca Riso e Alessio Gallo, naturalmente, non recitano: portano la loro spontaneità in un modo (guidato, naturalmente) che li rende praticamente perfetti. E, con Di Costanzo, ci aiutano a pensare che esiste ancora una bella alternativa al potere dei blockbuster: pochi soldi, molte idee, il coraggio del confronto.

L’INTERVALLO di Leonardo Di Costanzo. Con Francesca Riso, Alessio Gallo, Carmine Paternoster, Salvatore Rucco, Antonio Buil. ITALIA 2012; Drammatico. Colore